Con l’incedere della crisi pandemica, che è tuttora in corso, notevoli aspettative e speranze sono state poste sull’aiuto europeo.
Si è affacciata così l’occasione, per l’Unione europea, di ‘battere un colpo’ e cominciare a sfatare la sua nomea di entità distante da una politica attenta alle comunità e luogo di conflittualità fra stati tutt’altro che solidali. (Quest’ultimo aspetto, per tener fede alla verità, lo si è visto riemergere in occasione della trattativa svoltasi al Consiglio europeo del luglio scorso, convocato per l’approvazione dell’iniziativa della Commissione europea detta ‘Next generation Eu’).
Comunque sia, dapprima è stato sospesa fino a termine da definirsi l’applicazione del ‘Patto di stabilità e crescita’, (inutile tentare di rispettare i – già di per sé assurdi – vincoli europei quando il Pil dei paesi membri finisce per tutti sottozero); poi vi è stata la disponibilità della Bce a fornire il suo sostegno sotto forma di misure eccezionali, tramite l’acquisto illimitato di titoli pubblici, insieme a un sostanziale impegno a mantenere bassi i tassi di interesse fino, almeno, alla metà del 2021. (Anche se nel panorama operativo delle banche centrali, l’eccezione è ormai divenuta la nuova normalità).
Infine, la Commissione europea ha proposto di mettere a disposizione un bilancio dell’UE rafforzato per contribuire a riparare i danni economici e sociali causati dalla pandemia di Coronavirus. Il quadro finanziario 2021-2027 è così passato – dai 1100 miliardi iniziali – a 1850 miliardi e ritardi, riluttanze e poteri di veto permettendo, esso dovrebbe essere approvato a dicembre 2020. (Insieme all’adozione della decisione circa le ‘risorse proprie’, ossia la provenienza fiscale delle risorse a copertura parziale dei rimborsi legati all’emissione dei ‘titoli di debito europei’).
Al termine dell’estenuante trattativa del luglio 2020 fra i Capi di stato e di governo si è effettivamente – per la prima volta – fatta strada la possibilità, in deroga all’assetto istituzionale, di procedere a un’emissione di titoli comuni – ossia a una raccolta europea comune di risorse sui mercati -, che dovrebbe avere luogo fra il 2021 e il 2024, e di finanziarne parte del rimborso tramite imposte ‘federali’. Ciò che era sempre stato negletto è stato ammesso.
Con il ‘Recovery fund/Next generation Eu’, inoltre, nonostante la tanto decantata solidarietà rappresentata dalla quota di sovvenzioni a fondo perduto sia piuttosto limitata, si apre l’opportunità di poter realizzare spese e investimenti pubblici finalizzati alla crescita, restituendo la quota dei prestiti ricevuti nell’arco temporale di 30 anni. In sostanza, si è perlomeno aperta una breccia nel monolitico quadro teorico che ha supportato le politiche di austerità implementate dal 2010. (Il quadro secondo cui politiche fiscali restrittive tendenti a conti pubblici in avanzo primario – anche laddove un’economia si trovi in crisi – determinerebbero, via ‘effetto fiducia’, benefici maggiori dei costi).
Le risorse previste nel ‘Recovery Fund/Next generation Eu’ assommano a 750 miliardi di euro, ripartite in 390 di sovvenzioni ‘a fondo perduto’ e 360 di prestiti. In particolare, è stato inizialmente stimato che – per quanto riguarda l’Italia – possano giungere nel giro di qualche anno 208,8 miliardi, di cui 81,4 sotto forma di sovvenzioni e 127 provenienti da prestiti.
Particolare enfasi dovrebbe essere posta sull’impiego di una quota consistente di queste risorse in investimenti per tecnologie meno impattanti sul cambiamento climatico e per l’innovazione digitale. (Come recepito nelle ‘Linee guida’ di settembre, inviate dal Comitato interministeriale che le ha redatte al Parlamento, da cui scaturirà il ‘Piano di Ripresa e Resilienza’, da presentare in sede europea per la successiva approvazione).
I prossimi anni riveleranno se l’accordo intergovernativo sul ‘Next Generation Eu’ del 21 luglio scorso ha veramente aperto uno spiraglio per successivi sviluppi verso una ‘vera’ Unione europea (ad es., si affronterà finalmente la partita dell’armonizzazione fiscale? La Bce diverrà una vera banca centrale? Si rivedranno radicalmente i trattati istitutivi con la rimozione di tutti i difetti costruttivi che hanno caratterizzato, fin dal suo esordio, l’edificio comune?) oppure se i protagonisti dell’asse franco-tedesco, considerata la situazione di assoluta emergenza, hanno solo guadagnato tempo e non hanno voluto rischiare di compromettere ulteriormente un’Unione europea già lacerata dalla Brexit.
Tuttavia, pur volendo lasciare per ora in sospeso questo interrogativo, qualche indizio pare non volgere nella direzione che un pur cauto ottimismo suggerirebbe. Probabilmente, la frenesia tutta politica – della parte politica più vicina al liberismo in particolare – di dipingere l’Europa alla stregua di un esercito di salvezza, ha condotto molti a gettare il cuore e la speranza oltre l’ostacolo della realtà.
Se si apre il ‘Documento programmatico di bilancio 2021-2023’ [1] licenziato a metà ottobre dal Governo, che incorpora fra l’altro le componenti del ‘Recovery fund/Next Generation Eu’, si profila uno scenario piuttosto deludente. Fra gli obiettivi della politica di bilancio, emerge l’eterna ossessione per il debito pubblico. Nel Documento si legge: “Ipotizzando che la crisi sia gradualmente superata nei prossimi due anni, ricondurre l’indebitamento netto della PA verso livelli compatibili con una continua e significativa riduzione del rapporto debito/PIL”. E poco oltre: ”Partendo dal quadro di finanza pubblica a legislazione vigente, la manovra 2021-2023 della Legge di Bilancio punterà a sostenere la ripresa dell’economia con un’ulteriore spinta fiscale nel 2021, che si andrà riducendo nel 2022 per poi puntare ad un significativo miglioramento del saldo di bilancio nel 2023. Di conseguenza, gli obiettivi di indebitamento netto sono fissati al 7,0 per cento nel 2021, 4,7 per cento nel 2022 e 3,0 per cento nel 2023.
Per gli anni seguenti, si prefigura un ulteriore e significativo miglioramento del saldo di bilancio, tale da assicurare una riduzione del rapporto fra debito pubblico e PIL in tutti gli anni della previsione.” Infatti, il rapporto Debito/Pil è previsto in rapido calo, dal 158,0 per cento stimato per quest’anno al 151,5 per cento nel 2023. (La riduzione del debito pubblico a passo sostenuto è uno dei capisaldi del ‘Trattato di Maastricht’, e tale condizione è stata inasprita in occasione dell’approvazione del ‘Fiscal compact’).
Quindi la prima sorpresa è che, anche supponendo che nel 2022 la pandemia da Covid-19 sarà uno sbiadito ricordo, già nel 2023 il Governo Pd-M5s conta di rientrare – per quanto riguarda il deficit nominale – nei famigerati ‘parametri di Maastricht’. Non solo. Se si guarda a cosa accadrà al deficit primario, si legge che “Gli obiettivi di indebitamento netto si basano a loro volta sul rientro del deficit primario, che dovrebbe scendere dal 7,0 per cento del PIL di quest’anno al 3,7 per cento nel 2021 e all’1,6 nel 2022, per poi tramutarsi in un lieve avanzo (0,1 per cento del PIL) nel 2023.
Dunque, l’ossessione anzidetta arriva a concepire l’annullamento dello stimolo fiscale – in pratica -, a brevissima distanza temporale dal peggior tonfo economico degli ultimi 75 anni e il tutto dopo aver constatato gli effetti dell’austerità applicata dal 2010 (poi solo parzialmente attenuata negli ultimi anni). Tutto ciò, inoltre, confidando che non si apra già il prossimo anno una contesa infracomunitaria concernente lo stimolo monetario nel quale è al momento impegnata la Bce.
Potrebbe darsi che l’ottimismo di Giuseppe Conte e del Ministro Roberto Gualtieri sia tale da indurli a ritenere che, già nel 2023, la ripresa sarà così solida che l’economia potrà ‘correre’ sulle sue gambe, anche se “Il PIL trimestrale nel quadro programmatico recupera il livello dell’ultimo trimestre precrisi (il quarto del 2019) nel terzo trimestre del 2022”. (E, per quanto riguarda il 2019, non si è trattato di un grande risultato; si vedano i dati in fondo).
E’ piuttosto curioso, peraltro, che nonostante la centralità imputata al ‘Recovery fund/Next generation Eu’ ai fini del rilancio, il Governo stimi il contributo delle risorse europee alla crescita nel prossimo triennio nella misura di 0,3% nel 2021, 0,4% nel 2022 e 0,8% nel 2023. (Ed è difficile che il Governo reputi la prossima allocazione dei miliardi del ‘Recovery fund’ – scansita temporalmente nella tabella in fondo – tale da non sortire il miglior impatto possibile sulla crescita di breve e di medio termine).
Forse, alcuni passaggi del Documento possono aiutare a comprendere quanto appena citato: “Va ribadito che le sovvenzioni andranno ad aumentare la spesa per investimenti pubblici, il sostegno agli investimenti privati e le spese per ricerca, innovazione, digitalizzazione, formazione ed istruzione secondo le “Missioni” individuate dal PNRR per un ammontare di pari entità. I prestiti svolgeranno il medesimo ruolo, ma non si tradurranno in un equivalente aumento dell’indebitamento netto in quanto potranno in parte sostituire programmi di spesa esistenti (anche corrente) e in parte essere compensati da misure di copertura. La porzione di prestiti che si traduce in maggior deficit è determinata per ciascun anno coerentemente con gli obiettivi di indebitamento netto.
Per quanto riguarda le coperture della manovra, il quadro programmatico di bilancio per il 2021-2023 prevede, dal lato della spesa, l’avvio di un programma di revisione e riqualificazione della spesa corrente della PA; dal lato delle entrate, un gettito addizionale derivante dalla più elevata crescita del PIL generata dal programma di investimenti descritto in precedenza. Tale retroazione fiscale, tuttavia, viene prudenzialmente inclusa nelle stime solo a partire dal 2022, anche per tenere conto dei ritardi temporali con cui il gettito risponde ad incrementi dell’attività economica”.
Va premesso che la maggior quota di prestiti è distribuita fra il 2024 e il 2026, tuttavia pare proprio profilarsi il rischio che, sempre al fine di scacciare lo spettro dell’indebitamento, le risorse nette che alimenteranno le spese saranno inferiori rispetto alle attese perché i prestiti “potranno in parte sostituire programmi di spesa esistenti (anche corrente) e in parte essere compensati da misure di copertura”. Come se non fosse sufficiente, si “prevede, dal lato della spesa, l’avvio di un programma di revisione e riqualificazione della spesa corrente della PA”, la famosa ‘Spending review’.
Tutto questo, nel contemporaneo auspicio che si materializzi un rilevante gettito aggiuntivo derivante dalla più elevata crescita del PIL, mentre, volgendo l’attenzione al contrasto all’evasione fiscale “Si prevede la costituzione di un fondo da alimentare con le entrate effettivamente generate da tale attività, che sarà destinato al finanziamento di interventi di riforma fiscale (cioè una liberista riduzione di tasse, n.d.a.) e alla riduzione del debito pubblico”.
Per tirare le somme, non si può non adombrare il sospetto che il richiamo all’ordine da parte delle istituzioni europee sia già in programma e sia tacitamente accettato dal nostro Governo. Al limite, si può anche ipotizzare che si tratti dell’esito di una ‘trattativa’ già archiviata.
Durante la ‘Grande depressione’, nel lontano 1937, l’Amministrazione del presidente Roosevelt e la Fed (Banca centrale americana) credettero che la crisi fosse ormai sorpassata e che si potesse procedere al ritiro delle misure di sostegno – fiscali e monetarie – all’economia attuate dal 1932 fino ad allora. L’economia immediatamente ricadde nell’abisso, per riprendersi soltanto grazie alla produzione bellica legata alla II Guerra mondiale. Ma, allora, si disponeva di conoscenze e di esperienza relative alle crisi economiche notevolmente inferiori a quelle odierne. Oggi, mettere in cantiere obiettivi programmatici come quelli contenuti nel Documento programmatico di bilancio 2021, significa soltanto promuovere gli interessi della minoranza che, ancora una volta, da un prematuro consolidamento fiscale ha da guadagnare.
Note:
[1] Il Documento che, ai sensi del Regolamento Ue n.473/2013, il Governo invia alla commissione europea, all’Eurogruppo e al Parlamento italiano.