Questo il link per vedere l’incontro di approfondimento.
Vi sono tornanti storici i quali proiettano le loro conseguenze ben al di là del limite che i contemporanei sono in grado di raffigurarsi. Punti di svolta e processi con strascichi inattesi. Stagioni da cui, tuttavia, gli ‘eredi’ politici e intellettuali dei protagonisti cercano di trarre morali di più o meno marcata convenienza, nel tentativo di rafforzare le convinzioni proprie e del pubblico votante, consolidare le proprie carriere, assecondare i desiderata delle categorie sociali portatrici degli interessi prevalenti.
Uno di questi tornanti è stato senza dubbio il transito alla ‘democrazia’ e all’economia di mercato accaduto nei paesi dell’Europa orientale poco dopo la fine della ‘guerra fredda’. Se ne è parlato il 26 maggio sui ‘canali social’ di Punto critico, ospiti i più che competenti professori Maurizio Zenezini e Francesco Dall’Aglio.
Si cercherà, qui di seguito, di esporre per sommi capi le principali tesi e considerazioni emerse nel corso dell’incontro. Va da sé che eventuali fraintendimenti e misinterpretazioni sono imputabili soltanto all’estensore.
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Si può essere tentati di visualizzare la cessazione dell’Unione sovietica come realtà statuale e sistema socialista alla luce di un’ineluttabile scelta politica.
Gli intellettuali e i politici di cultura liberale, per esempio, sono inclini a interpretare l’evento in modo teleologico. La sconfitta dell’Urss e del blocco socialista altro non sarebbe stato che il naturale compimento di un lineare processo evolutivo. Al termine di esso, il fronte dei paesi liberi occidentali ha trionfato sulle autocrazie orientali. Non poteva determinarsi epilogo diverso. I mali che affliggevano le società dell’est Europa – tutti mali endogeni, come l’inefficienza delle economie e il conculcamento delle libertà individuali – hanno scavato la fossa al socialismo.
Libertà e democrazia si sono, infine, imposte. Riassumendo, il passato sarebbe inchiodato a una verità univoca.
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Si possono fornire letture interpretative divergenti rispetto al ‘mantra’ liberale? L’epilogo anzidetto era necessario?
Si può, cioè, ampliare la visuale e provare a cogliere ulteriori aspetti di una transizione storica in verità più complessa rispetto al racconto che ‘i vincitori’ della ‘guerra fredda’ hanno fornito? Se sì, è possibile includere altri fattori – stavolta esogeni – nel quadro d’esame che cerca di spiegare il collasso del Patto di Varsavia, avvenuto fra il 1989 e il 1991. Non è affatto trascurabile, per cominciare, il profondo mutamento della situazione relativa alle relazioni geopolitiche internazionali occorso negli anni precedenti il dissesto. I sistemi socialisti erano sì, sotto più riguardi, inefficienti, ma nel mosaico della storia va aggiunto qualche elemento chiarificatore.
Col senno del poi, depositate le polveri del crollo, si può magari cominciare a rivalutare gli eventi. In realtà, non vi era un disegno secondo il quale, nell’ambito della sfida detta della ‘guerra fredda’, uno dei due contendenti doveva cedere il passo all’altro. Non era scontato che la pluridecennale competizione geopolitica fra i due schieramenti si sarebbe dovuta risolvere con l’inequivocabile successo di una parte sull’altra.
Caratteristica di entrambi i blocchi contrapposti durante la ‘guerra fredda’ è stata la promessa del benessere. I due sistemi cercavano di perseguire il benessere dei loro popoli, ciascuno a proprio modo. Ma arrivarono gli anni settanta del ‘900. Un periodo traumatico, in seguito particolarmente ricordato per le crisi petrolifere, ma dalla cui disamina non si può pretermettere un marcato mutamento dell’ordine internazionale.
Nell’ambito della competizione globale la sfida rimaneva la stessa, ma i due regimi reagirono al nuovo scenario con risposte fra loro differenziate. La promessa del benessere rischiava di risultare vanificata nell’ambito di ciascuno dei due fronti avversari. Gli shocks dei prezzi delle materie prime energetiche provocarono un ingente dirottamento di risorse verso i Paesi produttori di petrolio, in ispecie quelli aderenti OAPEC. L’energia non era più disponibile a condizioni di buon mercato. I paesi capitalistici industrializzati dovettero avere a che fare con un inflazione rampante. Il settore finanziario accrebbe la propria rilevanza.
In occidente, il clima intellettuale rifletteva un certo pessimismo ‘malthusiano’. La parabola della crescita pareva giunta al capolinea. Bisognava affrontare una sfida inedita e la scelta cadde sulla rottura del patto in base al quale le classe lavoratrici erano state – almeno in parte – incluse nella promessa del benessere. Emblema del clima via via affermatosi è stata la politica neoconservatrice di Margareth Thatcher in Gran Bretagna, rimasta negli annali per la sua verve antisindacale. Si trattò di una fase molto difficile, connotata persino dal fenomeno del terrorismo (ad esempio, in Italia).
Negli Stati Uniti venne imposta una politica di brusca disinflazione. Seppure in coscienza delle conseguenze sociali in essa implicite, il ‘Federal reserve system’ guidato da Paul Volcker attuò una traumatica restrizione monetaria. Dato che i capitali finanziari rincorrono tassi il più possibile remunerativi, le conseguenze sul piano internazionale non si sarebbero fatte attendere.
In esito a un percorso non privo di scioperi e di conflitti interni, gli stati del blocco occidentale riuscirono comunque ad affermare un cambio di paradigma socioculturale. Una sterzata di orientamento decisamente neoliberista.
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Nei Paesi del Patto di Varsavia i vari governi pensarono di poter affrontare la crisi e la nuova fase delle relazioni internazionali senza dover rinunciare agli aspetti ‘socialisti’ dei loro sistemi socioeconomici. È in questa fase che cominciarono a delinearsi i contorni del proscenio nel quale l’Urss avrebbe perduto la sfida con l’occidente. Si verificarono dei tentativi di resistenza alla nuova temperie, ma al termine sopravvenne il cedimento.
Lo strumento che rivestì un ruolo da protagonista nel tentativo di preservare le caratteristiche sociali presenti nei sistemi dell’Europa orientale, fu il mercato finanziario. Naturalmente, la manifestazione della crisi comportava il deterioramento del rapporto fra le
autorità e le popolazioni. (Ricordiamo che, tutto sommato, anche sistemi politici monopartitici necessitano di consenso).
Diversamente rispetto all’approccio occidentale alla crisi degli anni ’70, i Paesi socialisti cercarono di eluderne le drammatiche conseguenze sociali. Cercarono, in sostanza, di evitare il ricorso all’austerità. Il notevole sovrappiù che si accumulava nelle casse dei Paesi dell OAPEC, finì per costituire riserve di fondi che, via mercato finanziario, alimentarono l’indebitamento estero dei Paesi del blocco sovietico.
Gli istituti bancari occidentali reputarono tali Paesi meritevoli di credito. A conti fatti, disponevano pur sempre della forza coercitiva tipica dei governi autoritari. Tale forza poteva
essere impiegata per ‘spremere’ i cittadini e il debito sarebbe stato ripagato. Tuttavia, non mancarono anche ad est tentativi di far ricorso a misure estreme: in Polonia, per esempio, si cercò di reprimere il movimento sindacale (Solidarnosc).
Parve quindi, in un primo momento, che i sistemi dell’Europa orientale potessero sopravvivere alle intemperie della nuova fase geopolitica. Invece, a un certo punto, i governi persero il controllo della situazione. Tentarono infine la carta dell’apertura politica, ossia l’abbandono del monopartitismo. Tutto pur di evitare l’austerità. Il consenso dipendeva da questo fattore. Ma, sotto il peso del debito estero, il sistema cedette nonostante tutto. Nel 1989 cominciarono ondate migratorie verso l’ovest.
Uno dopo l’altro, i partiti comunisti dei Paesi orientali persero il potere. Arrivarono i prestiti e le condizioni del Fondo monetario internazionale. In Germania est arrivarono i capitali della Germania ovest e vi fu la riunificazione. Alla fine del 1991 cessò l’esistenza dell’Urss. E poi, la transizione verso il mercato. Non senza condizioni, quali liberalizzazioni, privatizzazioni e austerità. Il tipico catalogo delle riforme liberali.
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Le maggiori sofferenze materiali per le popolazioni dei Paesi ex membri del Patto di Varsavia ebbero luogo durante la fase di transizione verso il mercato. Di fatto, il blocco sovietico non arrivò a perdere la sfida con l’occidente perché ‘si faceva la fame’. Furono i governi eletti dopo il crollo, a portare le popolazioni alla fame. Il passaggio al mercato avvenne nel periodo dal 1989 al 2000. Non si è trattato, comunque, di un processo isomorfico. La transizione ebbe luogo in modi diversi, in regioni e in tempi non sovrapponibili.
L’area prima costituente l’Unione sovietica, comprendeva zone come l’Asia centrale, il Caucaso, la Russia, l’Ucraina, gli stati Baltici. La zona di influenza sovietica comprendeva l’est Europa. Figurava inoltre il blocco balcanico e la Federazione Jugoslava. Non si trattava di un monolite, quindi la fase di transizione ha avuto approcci e punti di partenza diversi, legati anche alle preesistenti condizioni locali di relativo sviluppo e alla dipendenza dall’estero. (Ad es.: l’industrializzazione della Polonia e dell’Ungheria era incomparabile rispetto a quella della Romania e della Bulgaria). Quindi, alcuni ex membri del blocco socialista riuscirono a resistere all’impatto riformatore meglio di altri. Chi deteneva risorse – lato sensu – maggiori si trovò meglio preparato.
Le scelte dei vari governi non furono uniformi. Vi fi chi agì repentinamente e in questi casi il
malessere nel Paese di riferimento si concretizzò immediatamente, salvo poi registrare più avanti un piò o meno intensa ripresa economica. Altri governi optarono per un posticipo delle riforme di mercato, salvo poi, comunque, subirne le drammatiche conseguenze. La maggior parte degli economisti favorevoli alle riforme predicarono una sorta di itinerario che avrebbe somigliato alla lettera ‘J’. Un breve, temporaneo calo delle condizioni economiche, poi una spettacolare risalita. La realtà è risultata piuttosto divergente rispetto al modello ideale di fattura liberista.
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Ma cosa si può rilevare riguardo al problema del transito verso la democrazia e lo stile di vita occidentale?
Nei paesi dell’est si aveva un idea ‘romanzata’ – magari mitica – dell’ovest, una società dell’opulenza con larga accessibilità ai beni di consumo e ai servizi. Ci si attendeva che tutto sarebbe stato migliore. E poi c’era la libertà di voto. Il rovello nella fase pre-transizione, all’est, era il regime politico. Ci si interrogava in proposito. Il sistema liberale era visto come meritocratico e ciò avrebbe assicurato opportunità per chiunque e migliori condizioni di vita. Tuttavia, se oltre alla libertà di voto si fosse prospettata anche la liberalizzazione dei beni pubblici, molti avrebbero visto con sfavore quest’ultima.
Molti avrebbero detto sì solo alla democrazia, sebbene anche sotto tale profilo era diffusa una certa confusione. (Una panoramica delle eterogenee posizioni tenute dai dissidenti rispetto ai vari regimi a ‘partito unico’ alla vigilia delle rivoluzione del 1989, dimostra quanto la ‘volontà di democrazia’ fosse confusa circa le finalità e i tratti che il nuovo assetto politico avrebbe dovuto avere).
L’idea che i beni e i servizi pubblici avrebbero avuto un prezzo salato, come avviene in occidente, era taciuta. Altrettanto valeva quanto alla disoccupazione o altri beni essenziali, garantiti sotto l’ombrello del Patto di Varsavia: la casa, l’istruzione, l’energia elettrica domestica.
Quando i Paesi dell’ex blocco socialista entrarono nelle dinamiche del mercato, furono loro richieste dolorose riforme strutturali, che hanno comportato una transizione traumatica. Ciò perché le richieste di tagli e di riduzioni dei livelli medi dei servizi – che erano in precedenza assicurati – hanno comportato un pesante aggravio. Democrazia e liberalismo, introdotte all’est negli anni ’90 hanno avuto un duro costo. Standard di istruzione pubblica crollati, perdita di fiducia nelle autorità, peggioramento delle condizioni di vita e, da non trascurare, un’insorgenza di aggressivo nazionalismo. (Fenomeno, quest’ultimo, dalle tinte fosche e che aiuta in parte a spiegare l’attuale grave crisi bellica fra l’Ucraina e la Federazione Russia, nonché la montante russofobia in Polonia e nei Paesi baltici). Si può parlare, a compendio di quanto illustrato, di una transizione imperfetta: da un sistema totalitario con garanzie minime di soddisfacimento dei bisogni primari a un sistema più libero, ma con molte meno garanzie e meno sicurezza.
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A parere di chi scrive non guasterebbe, da parte dei sostenitori a oltranza del ‘pensiero liberaldemocratico di marca occidentale’ – esattamente quello che sta contribuendo all’innalzamento di una nuova cortina di ferro a ridosso dei confini russi e a un rinnovato slancio a brandire le armi – un minimo di obiettiva autocritica. Significherebbe, altresì, rendere il giusto tributo alla verità storica.