Nel 1991 il già Ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta, spiegò le ragioni che lo avevano indotto dieci anni prima, con la famosa lettera, a decretare il ‘Divorzio’ fra Tesoro e Banca d’Italia. Nella posizione di Andreatta risultavano ormai interiorizzati i presupposti ideologici del Monetarismo, la scuola di pensiero che si era fatta strada in opposizione all’interventismo politico in economia:
– la crescita e la stabilità dipendono dall’equilibrio monetario;
– le politiche espansive altro non sono che un’illusione inflazionistica.
In effetti, la crisi degli anni ’70, caratterizzata dall’aspetto inedito della comparsa di elevata inflazione e contemporaneo ritorno della disoccupazione, sembrava dar ragione agli apostoli del Monetarismo. (Con capofila, come si ricorderà, Milton Friedman).
Punto chiave è, in proposito – secondo questi -, la risposta delle autorità monetarie alla domanda di moneta degli agenti economici. Le crisi sono diretta responsabilità degli errori politici commessi dalle autorità. Dall’offerta di moneta deriva la stabilità e il reddito. Se tale offerta è eccessiva – perché ad es. il governo pretende troppo dalla banca centrale -, si avrà un effetto inflazionistico. Tuttavia, questo risultato sarà privo di effetti sul reddito reale. (Posizione che riecheggia quella del ‘Tesoro Britannico’ negli anni ’20).
L’inflazione è quindi, per i Monetaristi, sempre un fenomeno monetario e un’eccessiva creazione di liquidità la rende ineluttabile. Viceversa, l’inflazione da costi – come quella data dal doppio shock petrolifero – nel 1973 e nel 1979 – o l’inflazione da domanda – come quella data da pressioni del potere d’acquisto su una capacità produttiva vicina al suo limite -, non è mai riconosciuta quale causa prima dell’aumento dei prezzi (bene lo si nota nel testo di Andreatta).
L’inflazione tende poi a provocare un aumento dei tassi di interesse, susseguente alle aspettative che vengono a formarsi da parte degli operatori economici. Siamo, insomma, al cospetto delle fondamenta che verranno poste per accogliere il ritorno di quella che presto diverrà la ‘nuova’ ortodossia liberista, sulle quali è stata edificata, fra l’altro, l’Unione monetaria europea.
La politica monetaria è teoricamente inquadrata come competenza tecnocratica anche se, in realtà, le scelte ad essa relative risultano politiche e, dunque, non neutrali. Del tutto espunte dalla ‘nuova’ dottrina sono, infatti, le conseguenze distributive di tali scelte. Se la disoccupazione resterà sempre – come da allora in numerosi Paesi si è in effetti verificato -, su percentuali pressoché a doppia cifra, è evidente che l’inflazione sarà stata tenuta sotto controllo, ma ciò sarà dovuto primariamente al contenimento della dinamica salariale. (Si è trattato della vera questione che la politica ha voluto ‘risolvere’, anche mediante il Divorzio, lasciandosi alle spalle la conflittualità degli anni ’70).
Altro postulato del Monetarismo è il perseguimento di un’inflazione bassa e stabile. Tuttavia, l’esperienza ha mostrato che ciò non è condizione sufficiente al fine di garantire la crescita economica e un’occupazione di livello ottimale o, quantomeno, socialmente desiderabile. Il fatto che banche centrali indipendenti dal governo – così come è stato concepito quando si è deciso l’assetto istituzionale dell’Unione europea – focalizzino la loro attenzione sull’inflazione – la missione statutaria della Bce –, non tiene i sistemi economici al riparo dai danni che provocano le ricorrenti crisi finanziarie.
Occorre, in proposito, considerare l’assetto del mercato finanziario globalizzato, connotato da flussi finanziari liberalizzati, come peraltro era già all’epoca del Monetarismo in ascesa. E abbiamo constatato che queste crisi producono effetti di isteresi – o danni di lunga durata – superiori rispetto a quelli che l’inflazione è in grado di cagionare. (Ad es., la crisi degli anni ’70 è stata meno grave, in termini di prodotto perduto e di disoccupazione, nel raffronto con quella del 2008 e anni seguenti).
Altro ‘inconveniente’ derivato da un’eccessiva focalizzazione sull’inflazione è che essa conduce all’adozione di politiche restrittive dei tassi di interesse anche laddove la causa della crescita dei prezzi sia da attribuire a fattori esogeni e non a una gestione impropria della politica economica. Può ben darsi l’evenienza di prezzi in aumento la cui fonte sia un rincaro delle materie prime importate.
In questo caso un inasprimento dei tassi di interesse a livello nazionale sortisce un effetto trascurabile sui prezzi internazionali e un più tangibile effetto interno, soprattutto in termini di disoccupazione e riflessi deflazionari sui prezzi domestici. Risultato: se si vuole domare in tal modo un’impennata inflattiva esterna, i costi interni sono di gran lunga superiori. Per ridurre il tasso generale d’inflazione occorre una stretta interna proporzionalmente molto più intensa.
Secondo l’ideologia corrente al momento in cui Andreatta scrisse il suo saggio ‘giustificativo’ – che è ormai l’ideologia dei tempi in cui si attendeva alla creazione dell’euro -, la spesa dello stato non fa che provocare l’insorgenza di uno ‘spiazzamento’ della spesa privata. Il contesto teorico di base è quello della piena occupazione – intesa come presenza di una disoccupazione non inflazionistica o collocata al suo ‘tasso naturale’-, ossia una costante del modello che poggia sull’efficienza del libero mercato. (Il tasso naturale è un altro retaggio del Monetarismo).
La banca centrale deve, quindi, dismettere i propositi di finanziamento della spesa governativa e restare indipendente, occupandosi soltanto di garantire la base monetaria consentanea alle condizioni vigenti nel mercato. Abbiamo visto che, per i fautori del nuovo liberismo, la spesa pubblica comporta – insieme all’inquadramento dell’inflazione come fenomeno esclusivamente monetario -, soltanto la comparsa e il consolidamento di pressioni inflazionistiche.
Lo ‘spiazzamento’ sarebbe particolarmente avvertito nel settore finanziario: il presunto continuo aumento dei tassi di interesse dovuto al finanziamento del disavanzo pubblico dissuaderebbe i privati dall’avanzare richieste di prestiti. L’intervento pubblico attraverso il bilancio dello stato, sarebbe, quindi, inane e controproducente.
Ora qui sta il punto, ad avviso di chi scrive, potenzialmente equivoco e delicato. Negli anni ’70 si erano in effetti create, da un lato, condizioni ‘permissive’ di liquidità nei mercati finanziari e queste andavano a intersecare condizioni di – pressoché – piena occupazione. Nel 1971, gli Usa avevano dichiarato l’inconvertibilità del dollaro in oro, ponendo fine agli accordi di cambio vigenti dai tempi di Bretton Woods.
A ciò seguirà, come andremo a dire, una nuova distribuzione – a vantaggio dei paesi produttori di petrolio – della liquidità internazionale, i quali ben presto si adopereranno affinché essa venga avvertita e fatta pesare. Vi è una sorta di consenso diffuso in ordine al fatto che le politiche di gestione della domanda, adottate negli anni ’60, avessero contribuito non poco al perseguimento della piena occupazione. (O giù di lì). Ecco, dai primi anni ’80 non sarà più così. Dovrà essere il meccanismo spontaneo del mercato ad assicurare, sempre e comunque, la piena occupazione.
Il capitale si riorganizza, si ristruttura, reagisce alla sfida dei sindacati e, grazie anche a nuove tecnologie nel campo delle telecomunicazioni, dilata ulteriormente i suoi confini operativi fino a chiedere l’abbattimento delle residue barriere, come i controlli sullo spostamento dei capitali. La ‘compatibilità’ dei costi con l’ambiente internazionale diviene sempre più impellente e pervasiva.
Se l’inflazione non dipende dai costi o dalla domanda, bensì dal finanziamento della spesa pubblica e se, oltretutto, sarà il mercato con la sua autoregolazione a garantire un’occupazione di livello elevato, il ‘Divorzio’ appare giustificato. Ma, in tal modo argomentando, lo stato rinuncia a un importante strumento di politica economica e, di fatto, assume una netta posizione rispetto al conflitto distributivo.
Negli anni ’70 gli equilibri internazionali erano divenuti più instabili di quanto non fossero stati in passato. I responsabili delle politiche economiche si trovavano in effetti, disorientati. Tra il 1973 e il 1980 il prezzo del petrolio si era moltiplicato di tredici volte. Gli aggiustamenti ‘classici’ erano molto più difficili da realizzare. Alla fine del decennio, dopo aver tentato la ricetta espansiva, è stato imposto un raffreddamento della domanda interna per fronteggiare la stangata della bolletta energetica.
Il rincaro dei prezzi delle importazioni non riusciva ad essere compensato dalla trasmissione del caro-prezzi sulle esportazioni. La bilancia dei pagamenti ne risentiva e nonostante l’Italia – dopo la recessione dell’anno precedente – nel 1975 avesse già ritrovato la crescita, nel 1976 la lira dovette subire tre attacchi speculativi. La spesa pubblica e l’allentamento del credito non funzionavano a dovere perché il nemico da fronteggiare era il trasferimento di reddito all’estero – verso i paesi dell’Opec -, che andava compensato con la crescita delle esportazioni.
La svalutazione del tasso di cambio, in questo contesto, non faceva che incrementare il prezzo del petrolio espresso in lire. E il consumo del petrolio, nonché la produzione dell’energia, sono legati a fattori tecnici che, almeno nel breve periodo, comportano difficoltà nel compito di riuscire a sormontare le relative rigidità. Non restava che il ricorso all’indebitamento estero.
I paesi dell’Opec si erano trovati ad accumulare ingentissime riserve liquide – i petrodollari – e, in un sistema monetario che aveva perso i connotati di ordine impressigli a Bretton Woods, la speculazione a breve termine aveva assunto un ruolo inedito. Un dato che si consoliderà negli anni ’80 e ’90. Si è imposto, infine, il rigore, con l’idea di avere a che fare con l’imperiosa necessità di dover assecondare mercati che non consentono flessioni davanti ad una ‘disciplina oggettiva’. Tutto questo è rinvenibile nell’impostazione concettuale di Andreatta.
La crisi degli anni ’70 aveva, in effetti, posto problemi inediti. Non è un caso se, richiamando quanto detto, da tali vicende sia emerso – o magari si sia consolidato – il ruolo della Germania intorno al cui modello di potenza esportatrice verrà edificato l’Euro. Il suo avanzo commerciale non era calato al di sotto del 3% del Pil neanche durante i due anni di recessione subiti (1974 e 1975) e il costo del lavoro era stato costantemente tenuto sotto controllo. Al termine del decennio il marco tedesco si era ritrovato di gran lunga apprezzato rispetto al dollaro.
Ci si è trovati, in fin dei conti, oltre che dinanzi a condizioni economiche e finanziarie prima sconosciute, a un mutamento di paradigma voluto e ricercato. Il comportamento di Andreatta assume le sembianze di tecnicità, pare dettato dall’obbligo di risolvere un problema scaturente da fattori obiettivi – e dunque da acquisire asetticamente -, ma non è detto una volta per tutte che non vi fossero alternative.
Si è fatto largo il concetto di ‘compatibilità’ ai fattori capitalistici e al ‘vincolo internazionale’, con il corollario che, da allora in poi, gli aggiustamenti avrebbero dovuto avere luogo sacrificando i salari. (La ‘scala mobile’ – che ha avuto vita travagliata fino all’abolizione definitiva nel ’92 – nel frangente degli anni ’70 certamente non contribuiva al miglioramento delle ragioni di scambio internazionali, ma impediva che fossero i lavoratori a pagare le rigidità del sistema produttivo, rigidità che sarebbero state superabili in un ottica di più lungo termine e di ‘segno diverso’).
E’ dunque questo il contenuto politico del ‘Divorzio’ avvenuto nel 1981 fra Tesoro e Banca d’Italia. Lo stesso che, in tempi più recenti, ha connotato l’adesione alla Moneta unica europea, rispetto alla quale il Divorzio è stato il prodromo. (A questo punto è quasi superfluo rammentare che tale adesione implica il credo: i risultati economici sono ottenibili solo se l’inflazione è contenuta e stabile). Negli anni ’80 anche in Italia si è proceduto alla ‘disinflazione’. Senza la copertura della Banca centrale, la quale si è dal 1981 astenuta dall’acquisto dei titoli di stato ‘invenduti’ presso le aste del Tesoro, i tassi di interesse sono considerevolmente aumentati. (Tassi positivi in termini reali sono, naturalmente, la linfa della rendita finanziaria).
Tuttavia, la crescita del Pil è proseguita (grazie anche, dopo la crisi dell’80-82, alla ripresa del ciclo internazionale). La politica fiscale, nonostante l’impostazione severa impressa alla politica monetaria, ha mantenuto un’intonazione piuttosto espansiva. Ma la componente dei tassi d’interesse ha assunto un notevole peso nell’affastellamento del debito pubblico. Lo stesso debito che, a partire dall’accordo di Maastricht del ’92, viene costantemente posto sotto osservazione da parte delle autorità nazionali e comunitarie, con associati propositi e richieste di una sua riduzione a colpi di austerità.
Negli anni ’90, quando si è alfine pervenuti all’istituzione dell’Unione economica e monetaria europea, il mondo era ancora una volta ancora cambiato: il problema non era più l’inflazione. I mercati erano ormai inondati di merci asiatiche a prezzi irrisori e le sollecitazioni retributive ampiamente affievolite. Ma, nonostante tutto, la politica monetaria (dopo la caduta in discredito della regola ‘monetarista’ è stato introdotto l’inflation targeting) ha mantenuto la stessa funzione disciplinante, soprattutto sul piano salariale e distributivo. E’ il punto al quale ci troviamo ancora oggi, e non vi è da riporre grandi dosi di fiducia in un imminente cambiamento.
Forse non è mai opportuno addentrarsi nel merito di scelte economiche e politiche attuate da personaggi i quali si sono dovuti misurare con fenomeni complessi. Beniamino Andreatta lo fece certamente in buona fede, sui fondamenti ideologici di allora. La separazione dell’offerta di moneta dall’influenza del governo ha fatto parte, peraltro, di un disegno neoliberista più ampio. Ma il mondo che la sua ideologia ha plasmato – costellato di crisi, di capitali speculativi, di basse retribuzioni e di incertezza – è sicuramente peggiore rispetto a quello precedente.
Qui, lo scritto di Beniamino Andreatta