Otto segretari in quattordici anni. Da Veltroni a Zingaretti, passando per Franceschini, Bersani, Orfini, Renzi, Martina, Epifani. E si sono tutti dimessi in maniera traumatica, per esaurimento del ciclo politico e per consunzione dello spazio di agibilità tattica e strategica.
Una sequenza impressionante, che più di ogni altro tratto della storia già travagliata dei democratici italiani, segnala non solo gli evidenti limiti soggettivi di molti dei protagonisti della scena politica dem, ma anche, e soprattutto, la precarietà della costituzione materiale e politica di questo partito, segnato sin dalla nascita da una insufficienza politica e strategica di fondo.
Il Partito Democratico nacque nel 2007 sulla scorta di una idea-forza che discendeva direttamente dal clima neopositivista dei Novanta, inneggiante alle magnifiche sorti e progressive del combinato disposto capitalismo finanziario-tecnologia, idea che era già consunta agli inizi del nuovo millennio, tanto che di crisi in crisi si giunse alla Grande Crisi del 2007-2008, evento epocale che si incaricò di smentire gli ingenui e interessati laudatori di questo sistema.
E mentre gli Usa rispondevano all’Evento con una iniezione mai vista di liquidità nel sistema, e di salvataggi pubblici, l’Europa si sarebbe impantanata nella crisi dei debiti sovrani del 2010-11, pensando di uscirne fuori con la oramai famosa “austerità espansiva”. Questo per dare un sommario quadro dei fatti dell’epoca.
Ma torniamo all’idea bislacca che era alla base della fondazione del Pd al Lingotto: in che cosa consisteva? La convinzione di fondo dei gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita, fortemente indeboliti e logorati, che si apprestavano a fondersi, era incardinata nel pensiero debole che ha segnato il mondo della sinistra dal 1989 in poi: pensiero della fine di ogni conflitto di classe, e quindi di ogni necessità di redistribuire il reddito e i capitali, perché l’Impresa era l’unico orizzonte reale e ideale accettato e legittimato socialmente.
Ovvero la teoria neoliberale che accomuna lavoratori e imprenditori in un unico destino: ” siamo sulla stessa barca!”, quante volte lo abbiamo sentito? In sintesi, una impostura ideologica bella e buona, anche perché la crisi del 2007-2008 si incaricò di invalidarne i fondamenti teorici e pratici, e sulla base di questa falsa teoria nacque il partito democratico, che, ovviamente, anche se all’epoca non lo sapevano, era già nato morto: un aborto politico tenuto insieme da un collante ideologico scaduto: il veltronismo, summa cultural-estetica dominata da falsa coscienza e triti miti d’oltreoceano eletti a dogmi politici, una filosofia in sedicesimo di fine della storia in salsa casalinga, la versione sinistra, in tutti i sensi, dell’assunto contemporaneo che l’operaio e il proprietario dell’impresa, Cipputi e Agnelli, abbiano gli stessi interessi.
La crisi economica indotta dai dislivelli competitivi della mondializzazione, aggravata dagli assurdi parametri europei, che si innestarono in un percorso declinante di due decenni, fece piazza pulita di questa assurdità ideologica e rese accidentato il corso storico di questo partito, sgranando un rosario di sconfitte e cattive gestioni, arretramenti elettorali e fallimenti politici che fanno della vicenda piddina più uno psicodramma a cielo aperto che una ordinaria storia politica.
Se tu costruisci un partito sull’assunto che solo l’impresa può “dare lavoro” e costruire un futuro per i giovani, e poi le imprese se ne vanno in Asia o nell’Est Europa per pagare meno tasse e stipendi, e qui in Italia pagano salari indecenti, è chiaro che va in frantumi quel flebile patto sociale che fino all’entrata nell’euro aveva bene o male retto il paese, e tu partito ti riduci a fare leggi repressive del lavoro e dei redditi della classe media, per permettere ai capitalisti nostrani, sempre più deboli e periferici nell’arena globale, di poter rimanere a galla.
In sintesi: se fai il lavoro sporco per conto del Capitale, approvando Jobs act e affini, e quando arriva l’ondata della reazione popolare, fatta di rabbia mista a odio indistinto per “politici” che hanno permesso questo, la manchi in pieno, anzi, ne sei l’obiettivo principale, non ti puoi lamentare che sei sotto il venti per cento. Mentre il M5S arriva al trentadue, conquistando il governo del paese nel 2018, fatto enorme per un partito originato da un “vaffa”, invece i dem furono seppelliti dai “vaffa”.
Un atto politico realmente “progressivo” che il Pd dovrebbe fare, seguendo le dimissioni di Zingaretti, che forse sono la sua unica azione degna di nota, sarebbe quello di un suo scioglimento, un’ammissione di un fallimento irreversibile e irrevocabile, ma che solo potrebbe riaprire i giochi di una politica ingessata, congelata in un gioco di ruolo falsato, dove una finta sinistra si contende con una finta destra il governo del paese, salvo dichiarare bancarotta e chiamare il Santo Draghi al capezzale della nazione esausta.
Solo scrivere la parola fine sulla sceneggiatura politica di un partito fallimentare, può ridare speranza a quanti nutrono ancora fiducia nella rinascita negli ideali e nella prassi di una sinistra degna di questo nome.