L’edizione domenicale del Sole 24 Ore ha riportato una notizia molto interessante, che ha suscitato la mia curiosità: ritornano a crescere le esportazioni nel 2021, riportando il comparto ai livelli pre-Covid, e facendo segnare un +11% in termini di incremento annuo, 480 miliardi di beni esportati, e questo porterà un contributo importante alla crescita del Pil, che si attesterà intorno al 6%, secondo le stime più accreditate.

Ma, c’è sempre un ma di troppo nelle narrazioni troppo tinte di rosa, a ben vedere, nella realtà concreta del processo di produzione e vendita di prodotti all’estero, le cose non stanno andando proprio benissimo, infatti ben due terzi delle esportazioni sono realizzate da…solo 18mila aziende! Il 65% del totale. Il tutto certificato dall’ICE, l’agenzia per il commercio con l’estero, e dalla SACE, la società pubblica che supporta il credito alle esportazioni, due entità di indubbia serietà nel vaglio dei dati sul campo: in sintesi, due terzi delle esportazioni italiane sono dovute ad una eccellenza ristretta di 18mila operatori, il 4% delle aziende della platea imprenditoriale italica!

Ovvero: il valore prodotto è cresciuto in percentuale, ma il numero degli esportatori è diminuito, da 137mila a 126mila, dal 2019 il calo è dell’8%. Non solo, i numeri scandagliati dall’ICE e dalla SACE dicono un’altra cosa importante sulle esportazioni italiane: le politiche pubbliche di supporto in termini di credito e finanziamenti agevolati hanno favorito in gran parte i soggetti più forti, quelli meglio dotati come accesso al credito e possibilità di innovazione, più flessibili e più disposti al mutamento digitale, gli altri, i più deboli ed esposti ai venti della concorrenza internazionale, o sono periti, o non sono riusciti a difendersi adeguatamente.

In soldoni: i soldi pubblici sono andati nelle mani dei più forti, in quelle dei più deboli non è arrivato granché, una storia vecchia come quella del rapporto dello stato con il capitalismo italiano, da sempre prodigo di aiuti per i pesci grossi, che il resto si arrangi.

Ma, andando nella profondità degli strati di numeri e statistiche, il dato vero che risalta è un altro, ed è tutto politico, a ben vedere, e cioè: abbiamo devastato la domanda interna del nostro paese, pur di agganciarlo al treno europeo, riducendo alle pezze il ceto medio che oggi di medio ha solo la scarsità finanziaria e di accesso al lavoro e alle risorse, per privilegiare un modello, quello export oriented, che è appannaggio di una quota ristretta delle imprese italiane, basato su un ipersfruttamento del lavoro dipendente, concentrato territorialmente in quattro regioni: Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, che non assorbe che pochi lavoratori rispetto alla totalità della platea, in definitiva, un modello perdente e che non può assicurare lo sviluppo complessivo di una intera nazione complessa e articolata come la nostra.

Tanto che il Mezzogiorno d’Italia è il grande dimenticato dalla vicenda economica degli ultimi due decenni: solo l’11% degli esportatori sono allocati in questa zona del paese, e solo il 9,9% del valore prodotto è di imprese meridionali, numeri sconfortanti ma che ci spiegano il perché del fallimento di ben tre decenni di generale riorientamento economico, politico e sociale del nostro paese, un processo pensato e diretto dalle élite italiane, con il conforto dei poteri europei, che ha impoverito l’Italia rendendola più vulnerabile nel concerto delle grandi nazioni.

Questo esito non era scontato, non era inscritto nella natura delle cose economiche, ma è stato voluto e perseguito scientemente dalle classi dirigenti del Belpaese, sulla base del dogma made in Germany fondato sulla trinità salari bassi-esportazioni-sedazione del conflitto sociale, e quindi morte della domanda interna.

Come può, a sentire gli editoriali dei giornali, esserci crescita economica vera, se la domanda langue, se le attività commerciali chiudono, se si produce sempre di meno, se le imprese non fanno innovazione, se non si assume, e se i salari sono tra i più bassi d’Europa? Ci potrà essere solo una finzione statistica, il famoso +6% di Pil, ma fondata sul lavoro povero e precario, malpagato e senza prospettive, masse umane che si spostano da un posto all’altro per trovare una prospettiva di vita, che migrano da un lavoretto all’altro senza poter disporre liberamente della propria vita e del proprio tempo.

La schiavitù 4.0, ma vuoi mettere, fondata sull’esportazione!