Le navi genovesi sono già cariche di moribondi quando attraccano nel porto dell’ignara Costantinopoli, ove il contagio inevitabilmente si spande; la tappa successiva del viaggio della morte è la città di Messina. La yersinia pestis non incontra ostacoli nel suo tour dell’Europa: a facilitarle il compito sono le precarie condizioni igieniche di centri urbani che pullulano di ratti neri (vettori della peste). Leggendo il libro di Kelly si scopre con sgomento che in quel mondo tardomedievale le notizie circolano più rapidamente del male: davvero in quei giorni di attesa “la morte si sconta vivendo”, anche perché le contromisure introdotte dai governanti si rivelano pateticamente inefficaci.
La prima è la chiusura di scali e confini, che potrebbe forse frenare l’espansione del morbo se gli stati – allora in embrione – disponessero di strumenti di controllo adeguati, che invece non ci sono; soltanto i più ricchi riescono in parte a scampare, ritirandosi in campagna come la gioventù dorata descritta dal Boccaccio (ma il batterio non risparmia principi e teste coronate); la gente comune sperimenta rimedi fantasiosi e vani coprendosi la bocca con un panno o annusando essenze profumate.
A ben vedere le misure di contrasto all’emergenza richiamano alla mente i provvedimenti anti Covid di inizio 2020, ma ci sono due importanti differenze: l’estrema arretratezza della scienza medica di allora e l’assenza, anche nei Paesi più floridi, di un’organizzazione pubblica degna di questo nome. Fatto sta che la pestilenza impazza per un biennio (1348-1349) e termina la sua marcia in Polonia, dove improvvisamente si esaurisce. E’ il rarefarsi degli ospiti umani a determinare la battuta d’arresto del batterio: in un brevissimo lasso di tempo la popolazione del continente si è quasi dimezzata.
I resoconti dei contemporanei trasmettono un senso di angoscia, disperazione e impotenza: il morbo misterioso – che attacca anche i polmoni – è percepito come un’inesorabile punizione divina cui non è dato sfuggire. L’Europa intera precipita per due anni in uno stato catatonico: si bloccano il commercio, la vita civile, perfino la Guerra dei cent’anni tra Inghilterra e Francia. La peste del ‘300 rappresenta un unicum nella Storia umana, ma semplicemente perché avrebbe potuto condurre all’estinzione delle genti europee o (perlomeno) causare uno spaventoso regresso tecnologico e culturale.
A sorpresa avviene invece il contrario: la fuoriuscita dall’incubo rincuora i sopravvissuti e li spinge a interrogarsi sul destino e le prospettive dell’uomo, mentre la drammatica carenza di manodopera aguzza l’inventiva e produce un aumento dei salari, rendendo la società un poco meno ingiusta (ma questa sarà un’illusione di breve durata).
Nei secoli che seguono varie altre ondate epidemiche si abbatteranno sull’Europa, ma senza provocare conseguenze paragonabili a quelle “sospensive” della Black Death (con questo nome gli anglosassoni si riferiscono all’epidemia): a fine ‘500 il conflitto fra cristiani e turchi culminato nella battaglia di Lepanto del 1571 andrà avanti malgrado una situazione sanitaria tremenda sia a terra che sulle navi e neanche la peste secentesca raccontata da Manzoni influirà più di tanto sulla politica delle maggiori potenze continentali: si tratta di accidenti da sopportare al pari di una carestia, un terremoto o una scorribanda di mercenari.
In qualche caso le epidemie si rivelano addirittura buone alleate dei conquistatori europei: malattie oramai endemiche – e perciò non sempre fatali per i nostri avi – come il vaiolo seminano strage alle Canarie e in Sudamerica agevolando la penetrazione degli invasori iberici e la disintegrazione di comunità e regni privi di difese (anche e soprattutto immunitarie).
Benché la peste del ‘300 sia stata probabilmente assieme alle due guerre mondiali l’esperienza più traumatizzante vissuta dalle popolazioni del Vecchio Continente essa non merita, a stretto rigore, la definizione di “pandemia” a causa dell’irraggiungibilità (per vittime e bacillo) di regioni della terra allora sconosciute. Globale è stato invece l’impatto del più mortifero contagio della Storia recente: l’influenza c.d. spagnola comincia a diffondersi verso la fine della Grande Guerra tra cittadini e combattenti al fronte fiaccati da fame, sporcizia e privazioni.
Nell’astenia generalizzata il virus trova un prezioso complice, che gli consente di mietere un numero strabiliante di vite: in meno di due anni si conteranno fra i cinquanta e i cento milioni di morti. Sono cifre da Armageddon, e ciononostante il fenomeno passa in qualche modo in sordina e i libri di Storia contemporanea gli dedicheranno tutt’al più qualche frase, quasi fosse un corollario del conflitto che si avvia sanguinosamente a conclusione.
Una dose di responsabilità è ascrivibile alla censura militare, che stralcia le notizie allarmistiche per mantenere “alto il morale” (l’aggettivo spagnola è dovuto al fatto che solamente i giornali iberici diedero conto dei progressi dell’epidemia), ma tocca aggiungere che la gente si era ormai avvezzata ai lutti e che i governi avevano altro a cui pensare: la radicale risistemazione dell’Europa uscita dalla guerra, l’irrompere sulla scena del comunismo fattosi Stato, l’ardua gestione delle questioni nazionali.
Ad onta degli sfracelli compiuti il virus apparso nel 1917 non conquista le prime pagine dei giornali (altri media allora non esistevano) né s’impone all’agenda politica: anche in quest’occasione il mondo va avanti come se niente fosse, insensibile alle sofferenze dei suoi abitatori – la “inutile strage” aveva d’altronde ulteriormente indurito i cuori di quanti, detenendo il potere, l’avevano propiziata e poco si curavano del numero quotidiano di caduti.
Anche le epidemie della seconda metà del ventesimo secolo, senz’altro meno virulente, saranno in qualche modo sottovalutate (basta riguardare i tg dell’epoca, che snocciolano con indifferenza i dati sulla mortalità legata all’influenza annuale) – il quadro muta con gli anni ’80, con l’AIDS promosso a “peste del XXI secolo”. Nei decenni seguenti gli effetti di malattie più o meno nuove (ad es. il dengue) saranno raccontati dall’informazione con dovizia di particolari raccapriccianti e l’ossessione governativa per la sicurezza e la prevenzione (disinteressata? Ma certo, e gli asini volano…) finirà per generare paura anziché fiducia: il rincorrersi a tamburo battente di ammonimenti e previsioni catastrofiche (in campo sanitario, ambientale, energetico ecc.) spiega in parte la reazione isterica delle masse di fronte al Covid, che non fosse per il suo inquietante perdurare sarebbe una bazzecola a paragone delle morie del passato.
A questa ansietà indotta si aggiunge il rifiuto schifato della morte in quanto tale, che è a sua volta sintomo di una trasformazione antropologica e sociale: orbato della fede in Dio e del senso di appartenenza a una comunità l’odierno uomo occidentale è un atomo irretito e stressato alla ricerca di una (impossibile) realizzazione individuale o perlomeno di un compulsivo “godimento”.
La promessa che il sistema fa al singolo è vana (e in malafede), ma la comparsa del Covid-19 getta nel panico il cittadino perché minaccia di privarlo anzitempo dell’ultimo effimero “bene” che gli è rimasto, cioè se stesso. Ecco allora che per conservare un briciolo di speranza le masse chinano il capo dinanzi a precetti assurdi e si consegnano docilmente al vaccino – per impaurito egoismo più che per il presunto afflato “solidaristico” di cui ciancia ipocritamente qualche conduttore “de sinistra” su La7.
E’ la solitudine del consumatore a fare del Covid – parente povero di peste polmonare e febbre spagnola – un pericolo sovrastimato e sovraesposto, ma reale.
(fine seconda e ultima parte)