Abbiamo già analizzato su questa testata come le diffusissime perdite nelle reti di distribuzione siano la principale causa delle crisi idriche sul territorio nazionale e come, tranne per alcune rare eccezioni locali, la gestione del servizio sia regolata dal mercato e dunque indirizzata a massimizzare i profitti degli azionisti. Nell’ambito di una pubblicizzazione su scala nazionale del servizio idrico, i dovuti investimenti per la ristrutturazione dell’infrastruttura idrica potrebbero essere finanziati grazie agli utili delle tariffazioni (che non finirebbero nelle mani dei vari azionisti) e con un fondo apposito attraverso la Cassa Depositi e Prestiti.
Al contrario, è molto diffusa la subdola strategia di “socializzazione dei debiti e privatizzazione dei profitti”, in una logica che vede sistematiche e localizzate operazioni di “pubblicizzazione dell’acqua” affidando la gestione a un soggetto a totale capitale pubblico ma con forma di Società per Azioni, che permette di realizzare tramite interventi finanziati con fondi pubblici i lavori infrastrutturali per poi privatizzare le quote avallando la logica affaristica degli speculatori.
L’unico modo per pubblicizzare realmente la risorsa idrica è quello di sottrarla alla logica del profitto, portarla fuori dal mercato, affidando il servizio a un’Azienda speciale, che gestisca l’acqua a carattere sociale e senza scopi di lucro. I comuni potrebbero gestire attraverso l’azienda speciale tutte e 4 le fasi del servizio idrico integrato (captazione, adduzione, distribuzione e depurazione). Ovviamente un Comune, per poter gestire la prima fase, deve poter usufruire sul proprio territorio della disponibilità di un sito di captazione, e l’eventuale mancanza sarebbe un ostacolo superabile grazie ad accordi tra comuni o attraverso dei consorzi.
La gestione partecipata, attraverso un “comitato civico di controllo” costituito dai rappresentanti dei cittadini, delle associazioni e delle comunità che vivono quel territorio permetterebbe a questi di incidere nei processi decisionali che si riflettono su quel territorio e consentirebbe, ad esempio, un’azione di supervisione sulla fase di depurazione delle acque reflue che è spesso oggetto, data la mancanza di controlli, di operazioni di smaltimento illecito dei rifiuti da parte delle organizzazioni criminali con inquinamento grave del territorio a nocumento della salute dei cittadini che vi abitano.
Ovviamente per realizzare questi sistemi e rendere il servizio efficiente oltre che nell’erogazione del servizio a tariffe vantaggiose anche a livello di manutenzione e rapporto con la cittadinanza, è necessaria una sostanziale pre-condizione: un radicale cambio nella politica amministrativa nazionale per mettere i comuni nelle possibilità di intraprendere questa svolta, recuperando il personale e le competenze tecniche ed economiche che sono state perdute per via dei tagli pubblici e delle politiche di austerità.
Tutto ci riporta dunque al risultato del referendum del 2011 attraverso cui il 95% dei votanti (pari a 25 milioni di italiani) ha abrogato le norme che indirizzavano la gestione dei servizi pubblici locali ai soggetti privati, dimostrato che la volontà popolare privilegia una gestione pubblica e partecipata del servizio idrico e che l’acqua è universalmente riconosciuta come Bene Comune. Purtroppo le numerose leggi di iniziativa popolare presentate in Parlamento non sono state discusse o sono state smantellate tramite gli emendamenti.
Realtà locali illuminate nella politica dei beni comuni possono riuscire a costruire il loro sistema di gestione pubblica e partecipata ma solo una legislazione di carattere nazionale potrà rappresentare il momento di svolta per colmare questo vulnus democratico che il nostro Paese si porta dietro da 10 anni ed è per questo che la battaglia per l’acqua pubblica a livello nazionale rappresenta la “conditio sine qua non” per superare il problema della carenza idrica nel suo aspetto più generale. Come affermato dai movimenti per l’acqua pubblica: “si scrive acqua, si legge Democrazia”.