Al pari del fondatore dell’impero cinese Shi Huang Di, Ottaviano fu un uomo spietato, ma mentre il primo eccelse nell’arte militare (e non riuscì a fondare una dinastia) il romano fu essenzialmente uno statista e un politico di impareggiabile talento. Di origini abbastanza modeste, ma imparentato con Giulio Cesare, seppe cogliere e mettere a frutto tutte le occasioni che il destino gli porse, elevando a mito Roma e se stesso. Non fu un capo militare né un prode guerriero, ma prese l’Urbe con le armi e, più tardi, dimostrò fiuto nella scelta di generali – Agrippa, Tiberio, Druso, Germanico – che vinsero per lui non poche battaglie decisive.

Più ancora che nel valutare gli uomini fu maestro nel sedurli e “catturarne le menti”, primeggiando nell’arte sottile della propaganda. Così come la vanteria di aver trovato una città di mattoni e averla lasciata di marmo la Pax romana che egli “donò” al mondo è rimasta proverbiale, e lo stesso passaggio dalla Repubblica all’Impero fu all’epoca percepito da pochi, poiché la trasformazione avvenne sottotraccia e nel rispetto delle forme, cioè del c.d. mos maiorum.

Insomma: cambiò tutto fingendosi un restauratore. Due fedelissimi, entrambi di oscuri natali, lo agevolarono nell’attuazione di un progetto di rinnovamento radicale concepito fin dalla giovinezza: il già citato Marco Vipsanio Agrippa (trionfatore ad Azio su Marco Antonio) e Mecenate, il cui nome è assurto non per caso a sostantivo.

L’aretino Gaio Mecenate aveva tutte le doti necessarie a un manager dello spettacolo: fu a lui che l’erede di Cesare affidò la glorificazione propria e dell’opera realizzata. Il prescelto reclutò i più promettenti letterati del tempo e li convinse, colmandoli di onori, a mettere da parte le giovanili velleità ribellistiche e a prestare la loro voce alla narrazione del princeps.

Orazio e Virgilio divennero i cantori ufficiali del nuovo corso: il poeta pugliese eternò la potenza di Roma nel Carmen saeculare (“alme Sol… possis nihil urbe Roma visere maius”), intonato con grande effetto scenico da un coro di fanciulle sul Palatino, il collega mantovano annunciò coi suoi versi sonori il ritorno alla mitica età dell’oro, promettendo clemenza ai popoli sottomessi e un inflessibile castigo ai “superbi”. Interpretando da par loro lo spartito direttore ed esecutori fecero sì che la versione di Augusto diventasse Storia (la “nuova Storia” dell’Inno a Roma) – e che la sovrastruttura ideologica, dopo aver svolto la funzione di collante della struttura, le sopravvivesse arrivando fino ai giorni nostri.

Una delle indagini più approfondite e intriganti sulla politica (e la figura) del primo Imperatore è quella effettuata da Luciano Canfora nel saggio Augusto figlio di Dio (con la maiuscola, si noti). Non sempre convincente nelle vesti di commentatore politico, Canfora è uno storico acuto, meticoloso, (polemico come pochi) e dall’erudizione sbalorditiva. Meno empatico e arguto di un Alessandro Barbero – e sicuramente più ostico per il lettore medio – lo studioso pugliese analizza minuziosamente fonti e documenti di ogni genere per approdare a conclusioni sovente spiazzanti, ma sempre ben argomentate, lucide e persuasive.

Infarcito com’è di citazioni greche e latine il tomo su Ottaviano mette a dura prova l’appassionato, ma ne compensa la tenacia con vere e proprie… rivelazioni. Già nell’introduzione troviamo un accenno alla cometa che apparve in cielo durante i ludi in onore di Cesare assassinato, con l’autore che riporta l’illuminante commento di Plinio il Vecchio: “Queste furono le sue parole [di Augusto, si intende], destinate al pubblico, ma una gioia intima gli suggeriva che quella stella era nata per lui, e che lui nasceva in essa”.

Nel 42 a.C. – prosegue Canfora – “Ottaviano diventava ope legis «figlio di Dio»” a seguito della divinizzazione del padre adottivo, dando inizio (dopo l’eliminazione fisica o politica dei concorrenti) a una nuova era di pace. Non basta. Focalizziamo la nostra attenzione su quanto troviamo scritto a pag. 248 del volume: “In una epigrafe di Priene, risalente al 9 a.C. (…) si leggono formule inneggianti ad Augusto, che gareggiano in servilismo con gli sproloqui adulatori dei «poeti organici» del princeps. Egli viene definito «salvatore e portatore al mondo, per volontà della provvidenza, della buona novella».

L’epigrafe è in lingua ellenica, è il corrispondente greco del termine “buona novella” è com’è noto eυάγγελος, cioè vangelo. Serve un ultimo tassello? Dante promosse il pagano Virgilio a sua guida sulla base del convincimento, diffusosi nel medioevo cristiano, che il puer apportatore di un’età di pace e prosperità per tutti esaltato nelle Bucoliche fosse Gesù Cristo, il cui avvento il poeta avrebbe preconizzato. Trattasi, lo sappiamo bene, di un interessato fraintendimento, ma sull’identità del fanciullo permangono dubbi e incertezze, anche se molti lo identificano con Marcello – l’erede designato che, ancor giovanissimo, sarebbe purtroppo morto di malattia.

Lo storico non si mostra convinto, e suggerisce che il puer coinciderebbe con Ottaviano stesso, che conquistò il potere ad appena diciannove anni in circostanze che avevano del “miracoloso”: tuùs iam règnat Apòllo. Come nel gioco “unisci i punti” proposto ai bimbi dalla Settimana Enigmistica lo studioso lascia volutamente al lettore il compito di tracciare i segmenti – e passa beffardo ad altre tematiche.

Certo, tags come stella cometa, prodigio, salvatore e buona novella potrebbero rimandare gli ingenui a uno degli innumerevoli panegirici di Draghi o Mattarella sfornati giornalmente dall’agiografia mainstream, ma l’ateo militante ha la vista lunga: Canfora ci sta svelando che la narrazione evangelica è null’altro che un plagio di quella augustea, e che vita, morte e miracoli di Gesù Cristo appartengono al mondo delle favole – molti d’altronde si affannano da tempo a cercar di dimostrare che i riferimenti al Nazareno nei testi di Tacito, Plinio ecc. sono interpolazioni medievali.

Supponiamo che abbiano ragione: chi sarebbe il capostipite dei falsari? La risposta è facile: Paolo di Tarso, che fino a prova contraria è un personaggio storico e che generalmente è ritenuto il fondatore del cristianesimo quale noi lo conosciamo. A quanto ci raccontano fu proprio Saulo, una volta convertitosi, a far sì che la nuova religione non restasse confinata in ambito ebraico: nonostante le titubanze di apostoli e discepoli della prima ora la predicazione venne estesa ai gentili. Il nostro era un uomo dotto, che sapeva di filosofia e parlava greco; in più era cittadino romano e dunque – a differenza dei primi seguaci, tutti provinciali e verosimilmente analfabeti – padroneggiava gli stilemi culturali dominanti all’epoca.

Da fondatore a inventore il passo è (o appare) breve: Paolo avrebbe fatto un personale collage di affermazioni e “insegnamenti” impartiti da sedicenti profeti e messia contemporanei per adeguarlo poi, con opportuni arrangiamenti, ai canoni in voga nell’ecumene signoreggiato dall’Urbe allo scopo di rendere orecchiabile la nuova dottrina. Un’eco di questa complessa operazione risuonerebbe nei Vangeli, scritti a distanza di decenni dagli eventi narrati e direttamente ispirati dall’intellettuale di Tarso: oltre che in comete, miracoli ecc. ci imbattiamo talvolta, leggendoli, in sorprendenti oscillazioni nel pensiero di Cristo, che ora predica una sovrumana remissività ora minaccia (e in un’occasione agisce) con durezza.

Ammettiamo per un attimo che le cose siano andate così, che cioè Gesù sia una figura letteraria creata ex nihilo (o quasi) da Paolo a determinati fini. Non sarebbe un caso unico nella Storia, ma residua un quesito cui dare risposta: qual è l’obiettivo perseguito, il movente? Di solito chi – sapendo di barare – proclama una nuova “verità” religiosa e si pone a capo di una setta lo fa per arricchirsi oppure per acquisire potere (o per entrambe le finalità): di esempi nel ‘900 potremmo citarne più d’uno. Paolo non ottenne denaro né onori: anzi, durante la persecuzione neroniana (storicamente attestata) gli fu mozzata la testa. Nel corso della sua esistenza viaggiò moltissimo e altrettanto scrisse, sottoponendosi a estenuanti dibattiti con l’élite culturale del I° secolo d.C.: fu dunque smania di protagonismo? E’ lecito dubitarne, visto che riconobbe l’autorità di Simon Pietro e giammai si presentò come profeta o scopritore di verità nascoste.

Può darsi (rectius: è ragionevolmente certo) che egli reputasse il cristianesimo il rimedio ideale per i mali e le ingiustizie che affliggevano una società – quella dell’ecumene mediterraneo – in piena crisi spirituale e non semplicemente una versione esportabile dell’ebraismo, ma un personaggio della sua levatura non poteva far confusione tra il minaccioso “pacifismo” augusteo e il dirompente invito di Gesù a porgere l’altra guancia al nemico. Anche edulcorato e “rivisitato” il messaggio cristiano sarebbe rimasto a lungo indigesto al militarismo romano: ci vollero secoli prima che Cesare comprendesse che l’esaltazione degli ultimi (destinati sulla terra a restare tali) e la promessa riparatrice del paradiso potevano convertirsi in un affidabilissimo instrumentum regni.

Predicatore e propagandista infaticabile, Paolo di Tarso conseguì straordinari risultati non nell’immediato, ma a medio-lungo termine: non è credibile – né soprattutto è dimostrabile – che egli si sia limitato a raccontar frottole a gente che, perlomeno in Palestina, poteva facilmente sbugiardarlo. Augusto riuscì nell’impresa di plagiare milioni di menti, ma in quanto Imperatore aveva il pieno controllo di quelli che oggi definiremmo mass media.

L’ipotesi ricostruttiva più plausibile è dunque la seguente: un ebreo di nome Gesù o Yoshua è effettivamente esistito, e sotto l’impero di Tiberio disse e fece cose in terra d’Israele che i Vangeli più o meno fedelmente riportano. Da agnostico aggiungo: cose grandi, mirabili. Fu ingiustamente crocifisso su ordine di un governatore romano che non sarebbe altrimenti passato alla Storia: quel che successe poi è certo solo per i credenti.

A un certo punto della sua esistenza Paolo abbracciò quell’insegnamento rivoluzionario e, deciso a diffonderlo tra i gentili, si sforzò di renderlo intelligibile ricorrendo a immagini, modelli e topoi familiari all’umanità sua contemporanea. Non inventò nulla, anche se adattò, interpretò, tradusse – e prestò la sua opera con lo zelo e la passione del missionario autentico. Assomigliava più a un gesuita ante litteram che a un fraticello: per questo forse i semi che aveva sparso germogliarono.

Ottaviano Augusto, il “Figlio di Dio”, ci ha lasciato in eredità l’idea stessa di Impero, ma tutto sommato possiamo considerarlo anche il patrigno della Chiesa cristiana, e non solo per quel che riguarda simbologia e aspetti esteriori.