Il secondo, dicevamo, Adriano Olivetti, “un imprenditore di idee”, come lo definì il titolo del libro intervista a Franco Ferrarotti, fondatore, anzi, rifondatore, della sociologia italiana e suo storico collaboratore. Un uomo complesso, ricco di interessi, che spaziavano dalla politica all’urbanistica, dalla programmazione economica alle riforme sociali, dall’impresa al gusto per l’innovazione tecnica.
Figlio di Camillo, fondatore della Olivetti, rampollo della borghesia ebraica di Ivrea, assorbe dal padre la tensione ideale che lo fa propendere per il socialismo, di impronta liberale, per l’emancipazione della classe operaia, che lui vede come naturaliter tendente alla giustizia e portatrice di valori universali, per la ricerca incessante di un rapporto non predatorio dell’impresa con il territorio, per la costruzione di una utopia aziendale fatta di benessere degli operai, di spazi per l’arricchimento culturale dei dipendenti, di ambienti lavorativi vivibili, salubri, di asili per i bambini, di biblioteche popolari.
Ma non dobbiamo pensare ad Adriano Olivetti come ad un “buon padrone”, come spiega Ferrarotti nell’intervista con la studiosa Giuliana Gemelli, o, semplicemente, e riduttivamente, ad un borghese illuminato, con tutto il carico di significati che questa espressione si porta dietro, soprattutto in un paese come il nostro, spesso fatto di capitalisti piccoli, provinciali, immersi in una fitta trama di relazioni corruttive col potere politico e finanziario, no, Olivetti fu molto di più, impersonò il tentativo generoso, eroico, potremmo dire, di tendere i limiti del capitalismo al massimo grado, nel senso di inserirlo in un contesto sociale, territoriale, e, in definitiva, politico, capace di “ingabbiarlo” in un’orizzonte etico incentrato sull’uomo, i suoi desideri, il suo sviluppo psicologico e culturale, in sintesi: in un nuovo umanesimo politico.
Questo fu il nocciolo ideale e culturale della sfida che Olivetti pose all’intera politica e sociatà italiana del dopoguerra, una sfida dirompente per il piccolo mondo antico, e assistito, del capitalismo italiano, abituato a lucrare sui bassi salari, sull’oppressione della classe operaia, sul supporto del regime fascista, e, prima, della debole classe politica dell’Italia liberale postunitaria. Un alieno, potremmo dire, che piomba nel panorama dell’Italia dell’asfittico “centrismo”.
“L’ordine politico delle Comuntà”, testo teorico-politico pubblicato da Adriano Olivetti nel secondo dopoguerra, prodromo intellettuale del successivo passaggio politico con la fondazione del Movimento Comunità, pone in luce una volontà genuinamente federalista dell’imprenditore di idee, con l’idea-forza di una rinnovata organizzazione statale centrata sulla dimensione territoriale, più affine economicamente e socialmente, riuscendo a portare in parlamento due deputati nel 1958.
Certo, un risultato al di sotto delle sue aspettative, che miravano ad una nutrita pattuglia di almeno una trentina di deputati, per poter incidere in un campo politico dominato dalle due chiese, la cattolica e la comunista, facendo da ago della bilancia. Questo non avvenne mai, ma il Movimento di Comunità ebbe un’importanza molto più ampia della forza della sua rappresentanza politica, per il numero e il prestigio degli intellettuali coinvolti, per la ricchezza di interessi della casa editrice ad esso collegata, per l’eco delle suggestioni culturali propalato dalla mitica rivista e, in buona sostanza, per la personalità carismatica del suo fondatore e mentore.
Che, negli anni cinquanta, passa da un successo all’altro, costruendo una azienda capace di affermarsi nel mondo, presente sui maggiori mercati internazionali, con ben 36 mila dipendenti, più della metà all’estero, ma in grado di sperimentare forme di produttività “sociale” a Pozzuoli, con l’impianto di uno stabilimento per la produzione di macchine calcolatrici, addirittura più efficiente di quello di Ivrea. Ma il vertice della sua visionaria opera imprenditoriale fu raggiunto, grazie all’ingegnere italo-cinese Mario Tchou, con la sfida della Divisione Elettronica della Olivetti, che riuscì a produrre l’avveniristico, per l’epoca, Elea 9003, il primo supercomputer interamente a transistor, costruito e commercializzato in 40 esemplari.
La morte prematura di Olivetti, e la “strana morte” dell’ingegnere Tchou, in un incidente stradale, posero fine ai sogno di una elettronica italiana, infatti la Divisione Elettronica della Olivetti fu dismessa e ceduta agli americani della General Electric. Un fatto veramente singolare, che ha accomunato, in parte, Olivetti a Mattei, tutti e due visti come vittime dei superiori interessi “imperiali” americani, più Mattei, per la verità, ma anche sulla morte di Olivetti ci furono sospetti, e, soprattutto, su quella dell’ingegnere Tchou, tanto da essere riportati, anni dopo, perfino da Carlo De Benedetti.
Sia come sia, due giganti dell’impresa italiana, pubblica per il primo, privata, ma in un’accezione affatto nuova, per il secondo, con la loro morte aprono la porta all’entrata prepotente degli interessi economici americani, dopo Mattei l’Eni diventa una “normale” azienda petrolifera che non arreca disturbo alle Sette Sorelle, e dopo Olivetti l’Italia non sarà più protagonista della corsa all’elettronica che avrebbe caratterizzato gli anni ’70 e ’80, per sfociare nella rivoluzione digitale che ha cambiato il mondo. Due morti “provvidenziali”. E tutti e due accomunati dal fatto di essere uomini politici, l’uno, in maniera del tutto atipica, con la sua personalità debordante i normali confini di una impresa di stato, per assurgere a vero ministro degli esteri dell’Italia della Democrazia Cristiana che attraversa i Boom economico, in grado di disegnare complessi scenari strategici in piena autonomia, l’altro, come lo definì Ferrarotti, un “operatore sociale”, un politico a tutto tondo capace di esercitare un pensiero complesso nell’organizzazione aziendale, nel prefigurare future riconfigurazioni della macchina statale, nel cercare una composizione degli interessi sociali, e nella partizione tra cultura umanistica e cultura scientifica.
Ma, e veniamo al punto centrale della comparazione, oggi sarebbero possibili le loro traiettorie, sarebbe pensabile Mattei, sarebbe ipotizzabile un imprenditore-umanista come Olivetti? Svilupperò alcune riflessioni sul tema e una possibile risposta nel prossimo articolo.