Anche grazie allo splendido film di Kubrick (e all’interpretazione magistrale di Kirk Douglas) la figura di Spartaco non è ignota al grande pubblico: nativo della Tracia, disertò dall’esercito romano – in cui aveva servito da giovane presumibilmente come socius, cioè alleato – e fu per questo ridotto in schiavitù e destinato a combattere (e morire) nell’arena.
A Capua si mise in mostra come gladiatore, assurgendo a chiara fama tra i patiti dei ludi, ma il trace abbinava a coraggio e forza fisica una mente acuta, ed era capace di pensare in grande. Fu così che, organizzata la fuga propria e di una manciata di compagni dalla “scuola”, non esitò ad affrontare i manipoli romani lanciati al suo inseguimento e, dopo averli sbaragliati a più riprese, finì per convincersi di poter mettere in ginocchio l’Urbe e il suo sistema politico-economico.
Gli schiavi erano le “macchine” dell’antichità classica: avevano doveri ma nessun diritto, e il dominus poteva disporne a piacimento – risorse umane, insomma, o per dirla con Cicerone instrumenta vocalia. Incoraggiati dalle gesta di Spartaco (non il primo di loro a rivoltarsi, peraltro) questi disgraziati presero ad accorrere sotto le sue bandiere, formando un esercito che arrivò a superare le centomila unità.
Oltre che un capo carismatico il trace si rivelò un abilissimo condottiero, capace di mutuare le tattiche dei suoi nemici e di sovrastarli per ingegno e perizia, infliggendo umilianti sconfitte ad intere armate consolari – a trasformarlo in un eroe immortale fu tuttavia la visione di un mondo senza catene che concepì e si sforzò di mettere in pratica. Se mossi dal suo esempio tutti gli schiavi si fossero ribellati al proprio destino Roma sarebbe caduta senza bisogno di assedi, sepolta sotto le macerie di un’economia che su quell’odioso istituto si fondava e non poteva prescinderne.
Tremò allora il Senato e qualcuno cominciò a rendersi conto che il gladiatore che, dapprincipio sottovalutato, scorrazzava in armi per la penisola costituiva una minaccia alla sopravvivenza della Res publica più seria di quanto non fossero Sertorio e perfino il pontico Mitridate. Non avrà avuto il genio e la cultura di Annibale, ma lo eguagliava per spregiudicatezza e, in quanto venuto letteralmente dal nulla, appariva ancor più indecifrabile del cartaginese; inoltre i comandanti di maggior prestigio erano impegnati all’estero e quelli disponibili avevano dato pessima prova di sé, rimediando imprevedibili e cocenti sconfitte – oltretutto alle porte di casa.
Nel marasma generale ad offrirsi di risollevare le sorti della Repubblica fu un senatore ultraquarantenne che di case in fiamme si intendeva parecchio. Marco Licinio Crasso era dives (=il ricco) per antonomasia e uno dei personaggi più influenti di Roma; nel suo (presunto) busto marmoreo spiccano il mento pronunciato e lo sguardo attento, indagatore di chi è nato per gli affari. Gli è sopravvissuta la leggenda secondo cui, dopo averlo battuto a Carre (53 a.C.), i parti gli avrebbero versato in gola dell’oro fuso per punire la sua proverbiale brama di ricchezze; si sa che fece parte del primo triumvirato, ma la fama di Pompeo e soprattutto di Cesare ha ben presto eclissato la sua, relegandolo sullo sfondo.
Che sia stato un uomo avido e di pochi scrupoli è indiscutibile: ricco di famiglia (era figlio di un famoso oratore) moltiplicò da giovane il suo patrimonio intascando il ricavato della vendita dei beni di coloro che erano stati proscritti da Silla, con il quale Marco aveva strettamente collaborato. Fu solo l’inizio della sua fortuna: investite notevoli risorse economiche nell’edilizia divenne in breve padrone di mezza Roma. I metodi erano pirateschi: approfittava degli incendi che scoppiavano di frequente in città – talvolta pare li facesse appiccare dai suoi servi – per poi acquistare per un tozzo di pane i fondi dai proprietari rovinati al fine di edificarvi delle palazzine che affittava a caro prezzo.
Le insulae romane erano l’equivalente dei nostri condomini, ci viene spesso ripetuto, ma è una mezza verità: si trattava di alveari in cui vivevano assiepate le famiglie povere all’interno di locali angusti, malsani e bui causa l’assenza di finestre. La minaccia del fuoco era costante, ma l’attività di “palazzinaro” rendeva anche allora: Crasso investiva parte dei cospicui proventi nell’acquisto di latifondi (e della relativa manodopera) e nel finanziamento a privati che dovevano poi restituirgli fior di interessi – il banchiere tipo, d’altra parte, è un usuraio che detta le leggi anziché subirne il rigore.
Per un personaggio siffatto eliminare Spartaco e rimettere le cose “in ordine” era di vitale importanza – ma l’accettazione della sua candidatura dipese anche dalla nomea che si era guadagnato come comandante militare: era stato lui nella decisiva battaglia di Porta Collina a condurre i sillani alla vittoria sbaragliando i valorosi sanniti. A quell’epoca l’élite economica sapeva scendere in campo non solo metaforicamente, e Marco Licinio si dimostrò all’altezza del compito assunto.
Pretese ed ottenute ben otto legioni si mise alacremente all’opera, confermando le proprie doti di organizzatore e una spietata inflessibilità: l’addestramento fu meticoloso, ma quando – per l’avventatezza di un sottoposto – parte della nuova armata incappò in un insuccesso egli non esitò un istante a ricorrere alla decimazione. La strategia fu subito evidente: Crasso iniziò a pressare Spartaco per logorarne le forze e spingerlo in un vicolo cieco. Gli teneva il fiato sul collo, ma all’ultimo si disimpegnava abilmente – sarebbe stato lui, il dives, a scegliere il momento e le circostanze più favorevoli per lo scontro campale risolutivo.
L’esercito ribelle prese ben presto a sfaldarsi: per chi restava indietro non c’era misericordia, ma lo stesso trace ed il grosso dei suoi si trovarono a un certo punto intrappolati nell’estremo sud del territorio calabro. Marco Licinio Crasso aveva fatto costruire ai suoi legionari un impressionante vallo che andava da costa a costa: in uno slancio disperato e a prezzo di ingenti perdite gli schiavi riuscirono a sfondare le difese in alcuni punti, ma erano ormai un esercito disorientato e in fuga. Non fecero molta strada: alla testa di legioni a quel punto pienamente affidabili il duce romano li raggiunse in Lucania. Era il momento di farla finita con i ribelli, anche perché dal nord avanzava l’esercito del rivale Pompeo, vittorioso in Spagna.
Crasso elabora un buon piano e stravince battaglia e conflitto di classe contro i suoi instrumenta vocalia. In mezzo alle cataste di morti il corpo dell’indomito Spartaco non venne trovato: Trumbo e Kubrick lo immaginano crocifisso lungo l’Appia, gli storici antichi sostengono invece che cadde tentando di farsi largo con le armi fino al generale nemico dopo aver abbattuto due centurioni che gli sbarravano il passo. Terminava così una vicenda che avrebbe potuto cambiare il corso della Storia: il futuro triumviro, fra i primi ad avvertire la serietà del pericolo, diede ai sopravvissuti una tremenda e pubblica lezione (durezza e calcolo erano nella sua indole), affollando di croci la via che portava a Roma.
Venti anni dopo, in Oriente, non avrebbe dimostrato la stessa avvedutezza strategica contro avversari che ebbe il demerito di sottovalutare, giocato forse dall’ansia di superare condottieri più brillanti di lui: nel frattempo, però, aveva contribuito col proprio denaro all’affermazione di quel Giulio Cesare che – dosando fascino, magnanimità e spietatezza – avrebbe tramutato una corrotta Repubblica oligarchica nell’Impero per eccellenza.