Già dalla seconda metà del Novecento gli animali sono divenuti inutili presenze, sostituiti da mezzi meccanici, una sorta di industrializzazione dell’allevamento. La comunità scientifica internazionale ha evidenziato ormai da tempo le responsabilità degli allevamenti nei confronti dell’attuale crisi climatica, allevamenti che pesano eccessivamente sul pianeta sia in termini di emissioni dirette e indirette di gas climalteranti, sia per l’acidificazione del suolo e dei corsi d’acqua, l’eutrofizzazione degli oceani, il consumo idrico, la perdita di biodiversità e la deforestazione. Così pure si denuncia che la maggior parte delle malattie infettive sia di origine zoonotica; il salto di specie di queste malattie sembra essere facilitato dalla deforestazione a fini agricoli e dall’ allevamento intensivo, che agevola il fenomeno dello “spillover”, ovvero il salto di specie delle malattie.
Cosa significa allevamento intensivo?
Nel corso degli anni abbiamo assistito a grandi trasformazioni in campo agricolo: pratiche immutate nell’agricoltura vengono abbandonate, dall’agricoltura tradizionale si passa alle monocolture con uso di tecnologie meccaniche, genetiche, chimiche: gli animali, quasi ormai inutili presenze, vengono pertanto sostituiti da grandi macchine agricole, richiusi in luoghi ristretti, l’allevamento diventa un’attività industriale di produzione di proteine animali.
Quali conseguenze sulla vita e il benessere animale?
Si potrebbe pensare che il progresso abbia portato benefici per gli animali allevati nei grandi capannoni ma invece ci scontriamo con una dura realtà.
Inutili alcune ratificazioni e direttive internazionali e nazionali, dal 1976 al 2001, le parole scritte a difesa del benessere animale non sfiorano minimamente lo sviluppo dell’allevamento intensivo.
Animali come polli, tacchini, faraone in capannoni industriali con concentrazione anche di mezzo milione di capi che si calpestano tra loro, vacche in lattazione nutrite con carne macinata di pecore morte, vitelli e vitelloni trattati con sostanze cancerogene, allevamenti di 2000 scrofe a ciclo chiuso con capannoni di ingrasso e quasi nessuna mobilità, strappo delle piume a oche vive per piumini, macinature di pulcini vivi perché maschi, questo elenco di orrori desunto da una pubblicazione dell’ISDE, Medici per l’Ambiente, citato in coda.
A dire il vero numerose le discussioni sul benessere animale con produzione di direttive europee e nazionali, atti che però non sfiorano la sofferente realtà.
Quale è l’impatto degli allevamenti intensivi sulle emissioni e sulla deforestazione?
In tutto il mondo, tre quarti dei terreni agricoli vengono utilizzati per allevare animali o le colture per nutrirli. Nell’ottobre del 2021 è stato pubblicato un articolo sulle condizioni negli allevamenti intensivi da Friends of the Earth Europe e dalla fondazione Heinrich Böll Stiftung. Il documento aggrega tutta una serie di studi redatti da varie ong e da istituzioni pubbliche per descrivere l’impatto della produzione di carne nel mondo. Viene evidenziato come gli allevamenti di animali contribuiscono in modo significativo alle emissioni di carbonio, tanto da rappresentare a livello mondiale il 14,5% dei gas serra, dato confermato particolarmente da uno studio commissionato da Greenpeace che si sofferma in special modo sugli effetti della NH3 (ammoniaca) per effetto del deposito di liquami.
Questa situazione è dovuta perché, tra il 2015 e il 2020, le aziende di carne e prodotti lattiero-caseari hanno ricevuto più di 478 miliardi di dollari di sostegno da 2.500 società di investimento, banche e fondi pensione, la maggior parte con sede in Nord America o in Europa. Grazie a questo meccanismo finanziario, il rapporto stima che la produzione potrebbe aumentare di ulteriori 40 milioni di tonnellate entro il 2029, fino a raggiungere 366 milioni all’anno.
In tutto il mondo, tre quarti dei terreni agricoli vengono utilizzati per allevare animali o le colture per nutrirli. I maggiori produttori di carne restano Cina, Brasile, Stati Uniti e membri dell’Unione Europea, responsabili del 60% della produzione mondiale. Di fronte a queste percentuali non c’è da stupirsi se i tre quarti dei terreni agricoli sono utilizzati per allevare animali o per coltivare cereali e altre materie prime da destinare all’industria mangimistica. Esemplare il caso del Brasile, dove si procede a spron battuto a recuperare terre con la deforestazione per avere spazio per gli allevamenti; in quel Paese, 175 milioni di ettari sono dedicati all’allevamento, un’area pari a circa l’intera superficie agricola dell’Unione Europea.
Non dimentichiamo poi conseguenze tragiche degli allevamenti intensivi sul consumo di risorse idriche e su un aspetto suggerito dalla FAO: la produzione di mangime e foraggio, l’applicazione dei concimi e l’agricoltura estensiva sono tra i principali fattori degli insostenibili carichi di nutrienti, fitofarmaci e sedimenti nelle acque.
Quali relazioni tra allevamento intensivo e salute umana?
Un capitolo difficile visto che attendiamo certezze dai numerosi studi avviati sullo spillover, il salto da animale a uomo.
Sempre l’ISDE ci precisa che l’alta concentrazione di animali favorisce lo sviluppo di malattie comprese quelle che possono passare all’uomo, le così dette zoonosi, su cui attendiamo esatte valutazioni. Nel campo dell’uso degli antibiotici negli allevamenti, si hanno certezze; gli animali nei grandi allevamenti sviluppano una forte resistenza antimicrobica proprio per i frequenti interventi di medicalizzazione con antibiotici che abbassano le loro difese immunitarie ma con la certezza che l’antibiotico resistenza è trasmissibile all’uomo. Un altro elemento da non trascurare è proprio la necessità di destinare sempre maggiori estensioni di terra agli allevamenti riducendo sempre più le coltivazioni che garantiscono le risorse alimentari umane e il diffuso inquinamento di carichi di nutrienti, fitofarmaci, sedimenti nelle acque con un forte e devastante impatto ambientale.
E, per concludere, permettetemi una dovuta osservazione.
Siamo passati da un allevamento “morbido “ormai quasi di un secolo fa (la stalla, gli animali cui si dava un nome, il rispetto dovuto, i giochi dei bambini nelle stalle e nei cortili) a un allevamento intensivo con capannoni, silos, macchinari di ogni tipo, perché rinchiudere questi esseri in gabbie, prigioni e non farli vivere a cielo aperto? Anche qui prevale la logica del profitto, tanta carne di animali prigionieri, senza, non dico il rispetto, ma almeno un approccio che eviti sofferenze per facili guadagni.
Fonti
ISDE, dossier “Allevamento intensivo e allevamento biologico”, 1 agosto2021
Carne: le prime 20 grandi aziende emettono più gas serra di Paesi come Francia e Germania.
da Il Fatto Alimentare, 14 Settembre 2021
https://www.isde.it/
https://animalequality.it
https://friendofthehearth.org
https://www.epicentro.iss.it/index/Zoonosi
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