C’è un filo sottile che lega due libri recenti e apparentemente diversi tra loro: Le Perfezioni di Vincenzo Latronico, edito da Bompiani e Landness, una storia geoanarchica di Matteo Meschiari, pubblicato per Meltemi. Quel filo sottile è l’immaginazione.
Il primo è un romanzo dal profilo sociologico che racconta un modello di vita portato ad esempio da un’intera generazione: quello dei giovani creativi informatici cittadini del mondo, protagonisti di vite lussuose incredibilmente glamour. L’autore, Vincenzo Latronico scrive una storia che ricalca Le Cose di Perec per narrare di una giovane coppia in fuga da un’Italia miope e provinciale. Primo capitolo: presente. Secondo capitolo imperfetto. Terzo capitolo: remoto. Quarto capitolo: futuro. Tom e Anna, così si chiamano i due protagonisti, inseguono l’idea di una felicità per immagini, posticcia e stroboscopica, chiusa in una bolla a specchio di un infantile e performativo inconscio collettivo che ha costruito le propria esistenze secondo i dettami di un modello liberista integralmente destoricizzante. La parabola narrativa che li racconta è l’apofenia di una generazione che addomestica lo spazio con le energie e i ritmi tossici dettati da una società dei consumi, che dopo piccole soddisfazioni lavorative e momenti di figurato impegno sociale, non potrà che offrire fantasmi persecutori e degradanti delusioni. Soli e apparentemente sconnessi dal loro habitat “naturale” non riescono più a sognare ad occhi aperti e si ritrovano a vivere quella straniante consapevolezza della perdita di aderenza con la realtà che, come scrive Cristina Campo in un suo pezzo, probabilmente si “svolge su un altro piano”. E dove si trova quell’altro piano, quell’immaginario spaziale di cui, pur percependolo, non riescono a farne esperienza, se non come speranza nel futuro, titolo del capitolo di chiusura del libro? Perché la cartografia della loro vita cambia in modo così radicale, fino a diventare la traccia su una mappa che li farà accasare in una masseria ereditata da uno zio scomparso che ne aveva fatto il sogno di una vita, la propria idea di mondo a venire?
“Sarà un complesso di casa padronale, stalla e granaio, oltre a una spruzzata di casotti e rimesse, incuneato tra gli uliveti nelle colline inaridite dallo scirocco. I blocchi di tufo giallo saranno ricamati dai rampicanti; la zona sarà recintata da un muretto a secco che farà tutt’uno con la mulattiera che porta alla costa. L’aria saprà di afa, di polvere, di finocchio selvatico, di sale; il suolo secco e minerale darà una consistenza acuminata al vino e all’olio di quella terra”
Nelle parole di Matteo Meschiari, in un altro libro, Neogeografia, per un nuovo immaginario terrestre, troviamo il suggerimento che potrebbe servirci a dare le risposta alle domande poste pocanzi: “ma la realtà è diversa, checché se ne dica, la geografia si occupa essenzialmente di immaginario, e ciò che davvero conta in una mappa è proprio ciò che manca. Chi non capisce questo dato elementare ha frainteso la vocazione primaria della geografia, della cartografia, delle esplorazioni: spostare l’immaginario, spostarci con esso”.
Di esplorazioni e di questa idea di viaggio, personale e collettivo che oscilla allo stesso tempo tra paesaggio vissuto e pensiero agito, ci parla sempre l’antropologo modenese, Matteo Meschiari nel libro: Landness. Una storia geoanarchica. Partendo dal racconto della biografia di rivoluzionari anarchici dell’ottocento come Reclus e Kropotkin, “che hanno messo la terra al centro della loro vita” o come Bertoni, uno che “con la sua parabola dissipativa si può considerare il primo eroe antropocenico”, lo scrittore arriva a stimolare l’immaginazione del lettore con le vicende di naturalisti come James Kilgo, poeti come Gary Snyder o Kenneth White. “Perché esiste una storia parallela a quella dell’architettura urbana, neolitica, neoliberista, una storia fatta di capanne e celle e ripari che ha a che fare con il Grande Fuori”. Suddiviso in cinque parti, Prigioni-Nei paesaggi-Il libro di un’isola-Torbiera-Antropocene decadente, il testo intreccia vite di autori di riferimento e studi che hanno accompagnato e accompagnano tutt’ora l’autore alla scoperta della “potenza eversiva della landness”, detto altrimenti, della territà. È la parola evocativa della forma psichica necessaria a ripensare (forse bisognerebbe dire risognare) la nostra condizione antropologica, la trappola dell’immaginario collettivo dentro la quale siamo caduti, che porta il nome di Antropocene.
Forse a questo il libro-dispositivo di Meschiari serve: come moderna grotta di Lascaux, con le sue dense duecento pagine di testo corredato da immagini, fotografie e disegni, a consegnarci le scene e gli stranianti bassorilievi che possono far sì che le cose accadano e si compiano, nella cartografia delle parole come nella vita reale, dove è necessario, con buone scarpe ai piedi, creare quei paesaggi del sogno che ci guidino oltre il passo delle lande desolate di quest’epoca catastrofica.