Le elezioni amministrative svoltesi domenica scorsa hanno interessato 12,1 milioni di italiani e, in particolare, 5,8 milioni sono stati i cittadini chiamati alle urne nei dieci comuni più grandi, da Roma a Latina, passando per città come Milano, Napoli e Bologna, facendo di questa competizione amministrativa un test probante sulla salute della nostra democrazia e delle forze politiche che dovrebbero innervarla.
L’esito della contesa è stato, alla prova dei fatti, fortemente negativo: solo il 54,6 dei cittadini chiamati alle urne ha risposto all’appello, e, addirittura, se andiamo a vedere il dato di città come Roma e Milano, meno della metà dell’elettorato si è recato alle urne, il 48% e il 47% rispettivamente, certificando il pessimo stato di salute della politica italiana, non solo nel suo livello amministrativo.
Tanto che il successo del centrosinistra vantato dai suoi gruppi dirigenti, più che altro Letta e soci, dato che oltre al Pd non ci sono che satelliti minori senza grande consistenza, è una illusione ottica derivata dall’astensione record di queste elezioni, in realtà, andando a spulciare il dato in numeri assoluti, il Pd vince “indietreggiando”, perde voti rispetto alle elezioni amministrative del 2016, ma ottiene grazie alla diserzione di massa dalle urne percentuali buone, mentre il M5S crolla un po’ dappertutto, tenendo solo a Napoli e Roma.
Esplode, letteralmente, se guardiamo allo striminzito punto di partenza, il partito della Meloni, e anche la Lega, rispetto a 5 anni fa, guadagna voti, anche se, certo, i fasti pre-Papeete sono lontani. Forza Italia evapora identificandosi sempre più con l’ologramma di Berlusconi, che sembra parlare da un’altra dimensione che non è più quella reale, ma riesce ad agguantare l’unica vittoria chiara per il centrodestra, quella in Calabria, massimo scorno per l’ex Capitano.
A Roma e Torino la partita è aperta, anche se sembrano esserci più possibilità per il centrosinistra rispetto al centrodestra, Napoli, Milano e Bologna sono andate invece al primo turno ai progressisti per Draghi, certificando il fallimento politico del centrodestra a trazione salvinian-meloniana, ben poca cosa come consistenza politica dei candidati e dei gruppi dirigenti.
In definitiva, l’astensione ai livelli massimi ci dice che siamo oramai in piena era post-democratica, una fase caratterizzata dall’annullamento della politica intesa come possibilità di scelta tra opzioni valoriali e socioeconomiche differenti, in favore di un simulacro di vita politica ridotta alla mera gestione amministrativa delle risorse per conto dell’Unione Europea, ovvero la condizione esistenziale delle postdemocrazie dopo la Grande Crisi.
E anche il livello delle democrazie locali, Comuni e Regioni, ha sofferto di questa grande contrazione democratica, tanto che i candidati sono sembrati tutti uguali, vedi Roma o Milano, senza grosse differenze nei programmi elettorali o nel modo di porsi.
Una replica incolore, diciamo così, delle elezioni politiche o regionali. Non solo, ma questa scialba contesa elettorale ci ha offerto un’altra chiave di lettura, quella secondo la quale il discorso populista, variamente declinato, a destra o in quello che rimane a sinistra, si è arenato, nel tripudio della grande stampa e dei commentatori televisivi, d’altronde, è emersa chiaramente la funzione strumentale di queste retoriche narrative, utili ad agitare le viscere degli elettori ma inservibili per costruire vere opzioni politiche.
Due esempi: la Lega contraria all’Ue e ai governi tecnici alla fine ha abbracciato Draghi rendendosi poco credibile agli occhi degli elettori più radicali, e il M5S ha perso ogni contatto con il movimento degli inizi, “mai con il partito di Bibbiano!” e alla fine si sono arresi, anche con poco decoro, all’alleanza subalterna col Pd. Alla fine, gli elettori, sempre più intelligenti dei loro rappresentanti, piuttosto che supportare una fotocopia hanno scelto l’originale, quel Partito Democratico che si identifica col governo dello stato e con il vincolo esterno, inteso come dogma di fede. Sipario.