Dove finora non è riuscito il potere della persuasione, forse potrà riuscire l’istituto del silenzio-assenso. Con riferimento al lavoro negli enti pubblici, è accaduto che un comma inserito nella legge di bilancio per il 2018 ha dato la possibilità ai Sindacati e all’Aran (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni) di sottoscrivere un accordo che prevede l’adesione dei dipendenti pubblici alla previdenza complementare privata, anche tramite silenzio-assenso. (Come già avviene nelle aziende private).
L’accordo è stato stipulato il 16 settembre 2021. I lavoratori assunti dopo il primo gennaio 2019 che entro sei mesi dall’entrata in servizio o dal ricevimento della dovuta informazione non dovessero notificare all’ente di appartenenza un diniego espresso, si ritroveranno iscritti al Fondo pensionistico della propria categoria. Potere della finanza privata. Si sa, la previdenza pubblica è stata sottoposta negli ultimi decenni a una consistente cura dimagrante.
Gli assegni pensionistici dei lavoratori – soprattutto quelli che saranno percepiti dai giovani – si attesteranno a livelli di sussistenza. Il rimedio approntato dalla classe politica? I mercati finanziari. Il mezzo? Il Trattamento di fine rapporto dei lavoratori, una massa di liquidità che ha sempre fatto gola ai gestori dei Fondi di investimento. C’è però un fattore di incertezza: nonostante la grama prospettiva pensionistica futura e nonostante il trattamento fiscale di favore approntato per spronare le adesioni, la previdenza complementare non ha mai eccitato gli animi.
Ad oggi solo 8 milioni di lavoratori, su un bacino potenziale di 25, si sono affidati alla speranza di conseguire – al netto dei costi – una rendita nei mercati finanziari superiore alla canonica rivalutazione del Tfr. (I Fondi di categoria sono 33 e contano oltre 3 milioni di iscritti). Ciò è successo, in parte, perché le miriadi di piccole imprese che costellano il panorama produttivo nazionale preferiscono tenere in cassa le maturande liquidazioni dei collaboratori; e in parte, forse, perché – a dispetto degli accattivanti opuscoli informativi che descrivono le magnifiche sorti dei rendimenti tralasciando i rischi – è arduo contemplare un orizzonte di medio-lungo periodo depurato da crisi finanziarie. I mercati finanziari non daranno mai prova di stabilità e affidabilità.
Al netto delle crisi, i rendimenti e la futura rendita pensionistica privata dipendono naturalmente dalla linea di investimento attuata. Va ammesso che i Fondi negoziali mantengono generalmente un profilo piuttosto prudente. Il 37,6% degli investimenti è composto da titoli di stato, il 7,5% da depositi, il 22,2% da titoli privati, il 23,3% da titoli di capitale, il 9,4% è destinato a strumenti gestiti da Organismi di investimento collettivo. I rendimenti sono in genere piuttosto bassi. Si è andati, negli ultimi 10 anni, dallo 0,8% medio annuo nel comparto “obbligazionario puro” al 2% nel comparto “garantito”; dal 3,9% nel comparto “obbligazionario misto”, al 5,7% nel comparto “azionario”. (Quest’ultimo, naturalmente, è quello più rischioso ma anche quello maggiormente avvantaggiato dalle politiche monetarie espansive degli ultimi anni). Il citato accordo, valido per le amministrazioni pubbliche, prevede in caso di iscrizione “automatica”, l’iscrizione al comparto “garantito” (investimento per il 95% in obbligazioni e 5% in azioni) del Fondo di categoria. E’ comunque possibile esercitare altre opzioni.
Si vedrà nei prossimi anni se, almeno nel settore pubblico, l’espediente del silenzio-assenso riuscirà a dare la spinta alle iscrizioni che i gestori dei Fondi auspicano. (Le adesioni tacite di lavoratori privati negli ultimi 14 anni sono state 277.000). Resta certo che l’incedere della previdenza privata implicherà un sempre crescente sacrificio della previdenza pubblica. Più si asseconderanno gli interessi dell’idrovora finanziaria, più il destino della pensione pubblica sarà segnato.