Alessandro Magno sapeva conquistare le menti ed accendere l’immaginazione: non deve quindi stupire il fatto che egli mai cercò di vincere una battaglia senza combatterla impiegando quelle che oggi i manuali definiscono operazioni psicologiche “tattiche”. Non c’è in questo nessuna contraddizione: fedele imitatore del divino Achille, egli si batteva eroicamente alla testa dei suoi eteri (compagni, in greco), e più ancora che delle battaglie vittoriose gioiva nell’affrontare con la spada in pugno nemici valorosi sul campo. Con buona pace di Sun Tzu, un successo ottenuto senza spargimento di sangue sarebbe parso al re indegno dei suoi modelli omerici: d’altra parte, la straordinaria abilità di Alessandro come tattico e stratega, oltre che come combattente a cavallo, gli consentì, durante le fasi della conquista, di aver facilmente ragione di ogni avversario, quali che fossero le circostanze.
Le operazioni in cui il sovrano eccelleva, invece, erano quelle che si definiscono “di consolidamento”. Consideriamo i fatti: al suo arrivo in Egitto, non soltanto Alessandro non fu accolto da manifestazioni ostili, ma venne considerato dagli egiziani alla stregua di un liberatore. Il re sapeva bene che il maggior motivo di risentimento degli egizi nei confronti dei dominatori persiani era rappresentato non dal modesto tributo annuo dovuto a Persepoli, bensì dallo scarso rispetto mostrato dagli iranici nei confronti dell’antichissima religione nazionale. Alessandro, che tante nozioni aveva appreso dal suo maestro Aristotele ed aveva, nei confronti dei paesi attraversati, la genuina curiosità dell’esploratore, trovò abilmente il modo di cattivarsi la stima dei nuovi sudditi: per prima cosa rese spontaneamente omaggio al Bue Apis e tosto accettò di essere incoronato Faraone dell’alto e del basso Egitto nell’antica Menfi. A uso degli egiziani fece inoltre circolare la voce che Nectanebo, l’ultimo sovrano egizio cacciato da Artaserse III pochi anni prima, era riuscito a riparare presso la corte macedone dove, assunto l’aspetto del Dio Ammon, avrebbe reso incinta di Alessandro la regina Olimpiade. La storiella, così come la diceria relativa al fatto che, nel tempio della divinità, il profeta di Ammon Ra lo aveva salutato come figlio e gli aveva concesso il dominio del mondo, ebbero l’effetto – largamente previsto – di rafforzare l’autorità del sovrano macedone nei confronti di un popolo a lui estraneo, ma del cui sostegno egli necessitava.
La condotta seguita da Alessandro Magno in Egitto suscita ammirazione. Egli mostra di conoscere e seguire tutte le regole che stanno alla base delle moderne operazioni psicologiche: perfetta conoscenza del gruppo-obiettivo, credibilità del messaggio veicolato e sua idoneità ad influire favorevolmente (per il conquistatore) sul contegno di un popolo intero. Inoltre, la gestione delle operazioni è affidata a specialisti: i segretari e gli storici-propagandisti – tra cui il celebre Callistene – al seguito della spedizione. E c’è un altro particolare che va rammentato a quanti sostengono che le psyops sono un’invenzione del ventesimo secolo: invece di un satrapo sul modello persiano, in Egitto Alessandro nominò due governatori civili indigeni, Petisi e Doloaspi, mentre l’amministrazione delle finanze fu affidata a un residente greco. A due macedoni, personaggi non di primo piano, fu assegnato il comando militare (ma non il governo civile!), con l’ordine di mantenere un basso profilo. Il pensiero – ed il paragone – corre spontaneo al ben più arrogante comportamento tenuto dagli americani in Iraq, dopo la conquista di Baghdad nell’aprile 2003: presentatisi come liberatori del popolo iracheno, smentirono ben presto la loro stessa propaganda, sciogliendo il locale esercito, fonte di sostentamento per centinaia di migliaia di uomini, ed arrogando a sé ogni potere militare e civile, con le tragiche conseguenze cui assistemmo negli anni seguenti.
Chi è il professionista, viene da chiedersi, chi i maldestri dilettanti?
Su un solo popolo non poteva far presa, ovviamente, la campagna psicologica di Alessandro: e si trattava dei suoi macedoni. Molti di essi ritenevano che, affermando qua e là le proprie origini divine, il conquistatore offendesse la memoria del padre Filippo: l’opposizione venne allo scoperto dopo che Dario III fu definitivamente battuto e la Persia conquistata. Considerandosi oramai Re dell’Asia, egli – intelligentemente – volle rendersi accettabile ai sudditi iranici e adottò una forma di abbigliamento che costituiva una via di mezzo tra quella macedone e quella persiana. Invero Alessandro intendeva fondare un regno nuovo, che fondesse nel culto della propria persona razze, società e costumi diversi, per cui non disdegnava di adottare aspetti da lui apprezzati del cerimoniale dei popoli conquistati, fossero persiani, indi o battriani. Accettò dai nuovi sudditi, contro la volontà dei capi macedoni, l’onore della proskynesis (l’inchino rituale), da sempre riservato al Gran Re, e reclutò giovani persiani ed asiatici per il suo esercito. I timori dei connazionali erano tuttavia immotivati: il monarca non mutò le sue abitudini nei loro confronti, e le truppe rimasero suddivise per nazionalità, con quelle macedoni che continuavano a costituire il nerbo dell’armata.
Per i rudi montanari partiti dalla Macedonia era difficile comprendere, d’altronde, il genio di un uomo che aveva messo a frutto la lezione di Aristotele: autentico re del mondo, egli volle far sì che tutte le genti sottomesse al suo scettro lo riconoscessero come il “proprio” sovrano, e gli obbedissero non per forza, ma per amore.
La sua strategia ebbe successo, se è vero che, ancora nell’Ottocento, in sperdute regioni dell’Asia si fantasticava sul ritorno di un re che altri non era se non l’immagine mitizzata di Alessandro il Grande – colui che, incompreso dai suoi compatrioti, conquistò l’anima dei popoli e dei poeti, per sempre.