La vicenda afgana ci interpella direttamente, chiama in causa senza appello le coscienze anestetizzate di un Occidente che dalla fine della Guerra Fredda non riesce a vivere la complessità del mondo se non imponendo una continua guerra che pare non avere mai fine, un bellicismo infinito che satura di sé la nostra temporalità e ogni spazio del pianeta, sprovvisto di fini politici chiari, di obiettivi evidenti, di un senso complessivo che lo redima dalla sua brutale prosa di morti e macerie.
Dal 2001 fino al precipitoso ritiro di qualche giorno fa, che ha ricordato alle opinioni pubbliche occidentali il disastro americano di Saigon nel 1975, la guerra afgana è stata l’evento cardine, dal punto di vista simbolico e ideologico, che meglio di altri ha mostrato il vero volto di una parte-di-mondo che si è arrogata il diritto-dovere di imporre al resto del pianeta la propria concezione del mondo, i propri interessi strategici, con annessi paradigmi culturali e modelli interpretativi indiscutibili e apparentemente infallibili.
Infatti, se andiamo a vedere nel profondo della frastagliata catena di eventi che chiamiamo “guerra in Afghanistan”, se l’obiettivo tattico-strategico immediato consisteva, per esplicita ammissione dei vertiti militari e politici a stelle e strisce, nella “guerra al terrorismo”, in realtà il nucleo ideologico e prepolitico risiedeva nella più volte espressa esportazione di un modello democratico-parlamentare che si ritiene valido ad ogni latitudine antropologica e culturale.
E, oltre alla democrazia export oriented, il modello di vita e di relazioni politiche ed economiche occidentale è stato propagandato come l’unico possibile e desiderabile. Ed è proprio questo messaggio ideologico che è andato in frantumi con la fine dell’esperienza afgana, al di là del numero, impressionante, di morti, feriti, mutilati, delle macerie sociali e materiali prodotte, delle devastazioni economiche e ambientali, degli insostenibili costi finanziari di questa follia: oltre 2000 mila miliardi di dollari spesi dagli Usa, 8 e passa solo da noi, che però “non ci possiamo permettere” gli ospedali di prima, ma per assecondare gli Stranamore statunitensi sì, evidentemente, 66 mila morti nell’esercito afgano, 51 mila tra le fila talebane, oltre 47 mila nella popolazione civile, se stiamo alle stime più prudenti e al ribasso, per non parlare delle vittime occidentali, tra militari, contractors, civili e volontari.
Il tutto per dichiarare, per bocca di Biden, il completo fallimento della missione dopo vent’anni, anzi, per squadernare davanti al mondo la propria incapacità strategica con una fuga penosa e precipitosa, degna di classi dirigenti prone ai voleri di un apparato militare-industriale che pare detenere il comando politico. Di democrazia, di un embrione, almeno, di società civile e politica, di una economia passabilmente funzionante e non dipendente dalla produzione di droghe, di un clima civile e democratico in grado di guardare al futuro con speranza, nemmeno l’ombra: il primo caso nella storia di una guerra innescata con l’obiettivo di estromettere i taliban dal governo del paese, che dopo un ventennio produce…il ritorno degli stessi al governo! Chapeau, un risultato straordinario! E pensare che le classi dirigenti occidentali, sia chi decide sia chi segue sempre come l’intendenza, sono le stesse che propongono da un trentennio le ricette neoliberali come la verità rivelata all’intero mondo, che hanno tagliato la spesa pubblica, precarizzato la vita delle persone, ridotto i diritti, annullato le differenze culturali, propagandato modelli di vita ritenuti “universali” ma in realtà vettori di una nuova colonizzazione su scala globale.
Questo è il nocciolo più profondo del fallimento della missione afgana, lo sciogliersi come neve al sole della nostra ideologia, della nostra immagine del mondo, e il disorientamento dei capi politici mostrato in questi giorni, esprime meglio di tante analisi la paura di un Occidente che si rivela incapace di assolvere alla sua pretesa di dirigere i destini globali, terrorizzato che l’emergente Cina possa penetrare meglio e con più efficacia nelle aree del mondo, con il suo soft power fatto di diplomazia e investimenti, mentre Usa e Ue hanno pensato che bombardare e uccidere potesse renderci “desiderabili” agli occhi del mondo.
E, per una suprema ironia della Storia, che si diverte spesso alle spalle degli uomini, la Cina sta realizzando nella realtà quello che nella teoria pensavano filosofi e intellettuali statunitensi quando hanno canonizzato, a cavallo tra anni ’90 e primi anni 2000, il cosiddetto “Soft Power”, contrapposto al più nefasto “Hard Power”, nella concretezza storica mai applicato dai decisori politici americani, propensi invece a scodellare il loro solito menù a base di bombe “umanitarie” e guerre folli, l’elenco, d’altronde, è lungo: Iraq, primo e secondo tempo, Jugoslavia, Libia, Siria, Afghanistan, mai gli Usa hanno veramente fatto proprio il modello del potere dolce, fatto di blandizie culturali e dollari sparsi a piene mani. Il socialcapitalismo cinese si sta dimostrando più efficiente, più “adattivo, del capitalismo sanguinario degli Usa.”