Teodosio I, nato in Iberia nel 347 d.C., è l’ultimo grande reggitore di un Impero romano in progressivo disfacimento: dopo di lui verrà davvero il diluvio. Sebbene sia stato un indiscusso protagonista della sua epoca non è oggi granché famoso – in parte perché il IV secolo è considerato un’età oscura, ma soprattutto perché il nostro uomo, buon militare e abile statista, non compì imprese destinate a imprimersi nella memoria collettiva né manifestò quegli eccessi e bizzarrie che resero celebri personaggi come Nerone o Commodo. Nei busti e nelle monete coniate durante il suo regno è ritratto un bell’uomo, dai tratti delicati e il naso un po’ lungo; risulta anche che avesse morbidi capelli biondi (e il dato può sorprendere solamente coloro che, ignari delle fonti, immaginano che i nostri antenati fossero “tutti piccoli e neri”). Il gentile aspetto celava tuttavia un animo risoluto e un carattere aspro e vendicativo: se ne accorsero gli abitanti di Tessalonica che, ribellatisi all’autorità per motivi tutto sommato futili, vennero trucidati a migliaia nel circo dai soldati inviati contro di loro dall’inviperito monarca. Pare che questo bagno di sangue sia costato a Teodosio le reprimende di Ambrogio, futuro santo e dottore della Chiesa: un “vicino di casa”, peraltro, visto che anche l’imperatore risiedette per qualche tempo a Milano, oramai la più importante metropoli dell’Occidente.
Teodosio fu comunque presto perdonato, anche perché aveva accumulato innegabili meriti “dinanzi a Dio”: con l’Editto di Tessalonica, infatti (due volte i destini della città si intrecciano con quello suo personale), egli aveva proclamato il cristianesimo niceno religione di stato, mettendo al bando il credo pagano e l’arianesimo. Che la scelta sia stata dettata da fede sincera e disinteressata è perlomeno dubbio: i cristiani di allora somigliavano moltissimo agli odierni talebani, al pari di questi ultimi non porgevano affatto l’altra guancia e si segnalavano per intolleranza e fanatismo (si pensi alla tragica sorte della filosofa alessandrina Ipazia, massacrata per strada dai “paralabani” agli ordini del tristo patriarca Cirillo); i leader spirituali, dal canto loro, erano al contempo influenti capi politici, del cui appoggio in un periodo di torbidi l’autocrate aveva disperato bisogno.
Teodosio, che sarà in seguito soprannominato “il Grande” dai cronisti cristiani, sale al trono in un momento difficilissimo per l’impero, che è sul punto di crollare: la disfatta subita ad Adrianopoli da Valente, che muore affrontando i Goti (378 d.C.), spalanca ai barbari le porte dell’ecumene romana. Il limes ha ceduto: non ci sono risorse per ricostituire in fretta l’esercito né generali all’altezza della sfida, così il nuovo imperatore fa buon viso a cattivo gioco e si sforza di venire a patti con i nuovi venuti, “romanizzandoli” o almeno promuovendone l’integrazione in primis nell’armata, ormai diversissima per tattiche ed equipaggiamento dall’ordinato strumento militare dei Cesari. Nell’immediato l’operazione sembra coronata dal successo: i condottieri giunti da fuori apprezzano gli agi offerti dalla civiltà e non disdegnano di mettersi al servizio di un potere che sa ancora “catturare le menti”, ma a medio termine quel che resta di Roma diverrà ostaggio di una miriade di capitribù che, ancorché formalmente convertiti al cristianesimo (per convenienza nella maggioranza dei casi), rimangono “barbari”, cioè stranieri, e antepongono semmai i legami di sangue a quelli di fedeltà a una Res publica che, ai loro occhi, è anzitutto una vacca da mungere.
In verità tocca riconoscere a Teodosio una certa lungimiranza: divisa infatti di affidarsi a due cavalli che si riveleranno vincenti, la Chiesa romana e i germani. La prima è, fra le istituzioni oggi esistenti, la più longeva, e solo negli ultimi due secoli è entrata in crisi; quanto ai “tedeschi” saranno loro, a partire dall’alto medioevo, a raccogliere l’eredità imperiale romana – ci vorranno tuttavia vari secoli prima che ciò avvenga. Carlo Magno sarà, a suo modo, un monarca “romano”, ma prima di lui non lo è stato l’aperto Teodorico, benché assai più intelligente e “acculturato” dei predecessori. Che d’altra parte dei Goti Teodosio non si fidi troppo è dimostrato dal fatto che, in procinto di affrontare le truppe occidentali condotte da Arbogaste, egli li manda allo sbaraglio per ammorbidire il nemico: i morti fra i barbari saranno migliaia. Ci riferiamo naturalmente al più celebre scontro combattuto nell’antichità dalle parti di Trieste, passato alla Storia come la “battaglia della bora”. Siamo nel 394 d.C.: provocato il suicidio dello sventurato imperatore Valentiniano II, il franco Arbogaste pone sul trono un imbelle pupazzo di nome Eugenio e sfida l’autorità dell’imperatore legittimo, che sta in Oriente. Il barbaro è un uomo cinico e un comandante esperto: appurato che l’esercito teodosiano è numericamente superiore ma assai raffazzonato lo attende nella valle del Vipacco e studia un piano che, nella peggiore delle ipotesi, dovrebbe garantirgli una sicura ritirata. Il primo giorno – quello dell’assalto scriteriato dei Goti – la fortuna gli arride, ma l’indomani capita qualcosa di imprevisto: si alza tutt’a un tratto un fortissimo vento di bora che scompagina le sue schiere e favorisce l’avversario, che coglie una vittoria decisiva.
Teodosio riunifica l’impero, ma è mera illusione ottica: pochi mesi dopo si ammala a Milano, e muore di idropisia alle soglie dei cinquant’anni. Segue la divisione definitiva fra i due mondi: al figlio maggiore Arcadio spetta l’Oriente, al minore Onorio l’Occidente. Sono due ragazzini: il potere passa dunque nelle mani di uomini di fiducia del padre. Il più influente è Stilicone, generale (solo per metà) di origine germanica, che nel 406 sconfigge l’ambizioso capo visigoto Alarico. Quest’ultimo, che aveva partecipato alla battaglia del Frigido come “federato”, è quello che oggi si definirebbe un contractor, anzi: un fornitore di contractors, cioè una sorta d’imprenditore militare – fra l’altro tutt’altro che rozzo e ignorante. La corte dell’imberbe Flavio Onorio è però un covo di vipere: una congiura causa la soppressione di Stilicone, il nuovo “uomo forte” – Olimpio – non ha la stoffa del comandante, e allora i Goti iniziano a fare quello che vogliono sul suolo italico, mentre Onorio cerca rifugio a Ravenna.
Il sacco di Roma perpetrato da Alarico nel 410 d.C. segna di fatto la fine dell’impero d’occidente, anche se il figlio di Teodosio regnerà fino al 423 e altre emerite nullità si avvicenderanno sul trono finché Odoacre – un altro mercenario barbaro – non detterà i titoli di coda. L’Urbe era già stata presa e saccheggiata ottocento anni prima dai Galli, ma stavolta è diverso: non c’è nessunissima reazione, gli invasori – che poi non sono neppure tali – spadroneggiano a piacimento. E’ davvero l’epilogo, preannunciato trentadue anni prima dalla rotta di Adrianopoli.
Flavio Onorio regna (si fa per dire) per ventott’anni: un periodo lungo, anche se il monarca muore ancora molto giovane di malattia. Il problema è che in quasi tre decenni non combina assolutamente nulla – a cacciarlo non ci pensa nessuno, ma solo perché a nessuno dà ombra. Osservando i ritratti del Dominus nomine non re notiamo che aveva lineamenti fini e regolari: dal padre aveva ereditato la bellezza, ma purtroppo per lui nessun’altra qualità. Pare fosse abbastanza codardo, ma non si segnalava nemmeno per i vizi: l’unico aneddoto che lo riguarda ci è stato tramandato da Procopio di Cesarea, vissuto nel VI secolo. Pare che dopo il saccheggio commesso da Alarico uno degli eunuchi addetti… al pollaio sia venuto a riferire al giovane imperatore che Roma era caduta. Onorio sarebbe rimasto costernato: ma come, rispose, se gli (le?) aveva dato da mangiare appena pochi minuti prima! Il sovrano alludeva al suo pollo prediletto (che in certe versioni è un grosso gallo, in altre una più modesta gallina) e si rasserenò non appena il servitore lo informò che si trattava invece dell’ex capitale.
Procopio non presta troppa fede alla diceria, di certo proveniente dagli ambienti del palazzo, ch’egli giudica una maliziosa sottolineatura dell’inettitudine del monarca, e gli studiosi più recenti sono dello stesso avviso. Personalmente ritengo, invece, che come molte altre storielle apparentemente inverosimili essa potrebbe essere autentica: cos’era in fondo Onorio se non un ricco possidente, annoiato e del tutto avulso dalla politica attiva della su epoca? Riesco a figurarmi quest’uomo mediocre e – in definitiva – solo nell’atto di nutrire amorevolmente i suoi polli, magari di esternare loro le proprie frustrazioni… di sfogarsi insomma, maledicendo il destino e gli intrighi di una corte in perenne e vana fibrillazione. Resta il dubbio, leggendo Procopio e chi l’ha ripreso, se si trattasse di pollastri o di gallinelle – ma la scena, per quanto ridicola, umanizza un poco un personaggio altrimenti anonimo.
Un’ultimissima annotazione, che c’entra fino a un certo punto con la vicenda trattata: nel suo ardore polemico Massimo Fini ha spesso sostenuto che in antico (e nel medioevo) la speranza di vita sfiorava i settant’anni e che ad abbassarla fittiziamente sarebbe stata l’elevatissima mortalità infantile. Dunque i progressi della scienza moderna e della medicina ci avrebbero regalato appena cinque-sei anni. Tralasciamo la pantomima sui vaccini “firmati” e miracolosi, che parrebbe dar ragione al fondatore del Movimento Zero: che le cose stiano diversamente ce lo dimostrano i destini di tre imperatori consanguinei, morti di malattie banalissime fra i venticinque e i quarantotto anni. Il presente fa schifo, dominato com’è da oligarchie rapaci, corrotte e ipocrite, ma distorcendo la realtà al sistema facciamo – paradossalmente – soltanto un enorme favore.