Nelle piazze di molte città del continente un immortale ci guarda dall’alto, rivestito del paludamentum e dell’inseparabile corazza: caratteristiche del suo volto sono gli zigomi pronunciati e gli occhi che, pur scolpiti nella pietra, conservano l’eco della vivacità del modello.
E’ corretto, ma riduttivo, definire Caio Giulio Cesare uno dei più grandi comandanti militari di tutti i tempi: al di là dell’impressionante varietà dei campi in cui il suo ingegno gli permise di primeggiare, il romano fu soprattutto un abilissimo politico e uno statista lungimirante come pochi. La prova sta nel fatto che l’impero da lui edificato sulle ceneri dell’ormai decrepita repubblica romana sopravvivrà al fondatore per oltre cinque secoli; e questo a non voler considerare Bisanzio e, su altro piano, l’innegabile influenza esercitata da una figura realmente superiore sul successivo sviluppo della civiltà europea (e non solo), fino ad oggi.
Tra i meriti da attribuire a Giulio Cesare v’è quello d’aver compreso – per primo in maniera chiara – il ruolo centrale di quella che oggi chiamiamo “opinione pubblica”, il cui sostegno dev’essere ottenuto e conservato da chi si appresta a realizzare trasformazioni epocali nella struttura d’una società. Anzi: l’opinione va influenzata, blandita e, ove possibile, creata: non a caso, con i suoi acta diurna e gli acta senatus (giornali murali che riportavano i resoconti delle sedute del Senato), il più illustre rampollo della gens Iulia può essere considerato, se non l’inventore, il geniale precursore del giornalismo moderno.
Alla luce di quanto detto, il costante ricorso all’arma psicologica da parte di Cesare, nel corso delle tante campagne che lo videro protagonista, non può né deve stupire: ciò che semmai colpisce sono le tecniche e gli strumenti di volta in volta utilizzati. Come Alessandro, egli non sottovalutava il potere della parola scritta, se capillarmente diffusa – ma a differenza del macedone, non aveva bisogno di letterati professionisti che magnificassero le sue imprese. Giulio Cesare fu, tra le altre cose, uno dei maggiori autori latini; e i “Commentarii” redatti di suo pugno, e lodati persino dagli avversari, si dimostrarono un mezzo di propaganda straordinariamente efficace.
Le doti di persuasore del romano si manifestano compiutamente nella guerra civile che lo vede opposto ai sostenitori del declinante potere oligarchico: la propaganda cesariana è rivolta alla società civile non meno che ai nemici (interni) sul campo di battaglia. Nei confronti di questi ultimi – che Giulio Cesare definisce “adversarii” e non “hostes”, con ciò lasciando aperte le porte alla riconciliazione – egli fa costante mostra di magnanimità (soprattutto per quel che riguarda legionari ed ufficiali subalterni), mirando ad ottenere la resa dei suoi avversari piuttosto che ad annientarli: lo scopo è magistralmente raggiunto nei primi tempi del conflitto contro Pompeo e soprattutto nella guerra di Spagna contro i pompeiani Afranio e Petreio, quando le truppe repubblicane passano nella loro totalità dalla parte di Cesare, abbandonando i comandanti.
Tuttavia il principale destinatario della propaganda giuliana è lo strato “medio” dell’opinione pubblica romana, gli equites e la piccola borghesia cittadina ed italica che, travolti dagli eventi, non hanno all’inizio ben chiaro da che parte convenga stare: per ottenere il loro appoggio, anche in chiave futura, egli si serve certamente di uomini fidati e iniziative clamorose, ma anche e soprattutto dei formidabili Commentarii.
Nella sua ricostruzione dei fatti, ben presto di dominio pubblico, Cesare sottolinea di essersi sempre mantenuto nell’ambito della legalità, insiste sul proprio desiderio di una pace duratura; gli stessi episodi di clementia, confermati più o meno a malincuore dagli oppositori, sono un messaggio rassicurante per i destinatari dell’azione.
Il futuro imperatore promette riforme ed una politica tale da assicurare gloria e prosperità per il popolo romano negli anni a venire: la convinzione che una profonda trasformazione della società sia necessaria si trasmette naturalmente ai lettori, e mette radici nel loro animo. Prima di conquistare Roma, Giulio Cesare conquista i romani.
Premesso questo, non manchiamo di osservare che la più straordinaria operazione psicologica condotta a buon fine da Cesare appartiene a un periodo precedente, e riguarda l’attraversamento di un fiume impetuoso.
Proconsole in Gallia, il romano non sottovalutava la minaccia rappresentata dei germani che, attraversando il Reno, compivano sporadiche ma tremende razzie in territorio gallico, ritirandosi poi dietro la protezione del grande fiume. La dura lezione inflitta agli Svevi di Ariovisto non tranquillizzava il condottiero: era indispensabile impressionare quei barbari dando loro un segno tangibile della superiore potenza di Roma. L’unica via possibile era oltrepassare quel rivo che i popoli germanici consideravano una frontiera invalicabile da qualsiasi nemico.
Gli Ubi si offrirono di fornire le navi necessarie all’impresa: ma Cesare (forse rammentandosi di essere il massimo pontifex, che nel latino delle origini significa appunto facitore di ponti) optò per una diversa soluzione, assai più efficace ai suoi fini. Per rendere possibile l’attraversamento, ordinò la costruzione di un ponte che fu realizzato in tempi così rapidi da passare la storia come una delle più grandi opere di ingegneria mai viste. Dopo appena dieci giorni l’esercito romano passava il Reno: sbigottiti da un’impresa che andava al di là della loro immaginazione (e delle loro capacità tecniche!), i germani abbandonarono i loro villaggi all’invasore e si sparpagliarono nelle foreste.
Senza bisogno di combattere, Giulio Cesare aveva vinto la guerra: riattraversato il fiume in piena tranquillità dopo 18 giorni, egli ordinò ai soldati di distruggere quel ponte che tanto aveva atterrito i nemici. Anche quest’ultima decisione ebbe un impatto psicologico fortissimo: quale doveva essere il potere dei romani se essi non esitavano ad abbattere un’opera tanto meravigliosa?
L’obiettivo iniziale del proconsole era quello di incutere nei germani un timore superstizioso, ribadendo l’inarrivabile supremazia di Roma: poteva dirsi raggiunto, non valeva la pena di lasciare truppe a presidiare località povere di attrattive.
Non solo il senso del messaggio era incontrovertibile (“ovunque vi nascondiate, Roma possiede gli strumenti per raggiungervi ed annientarvi: vi conviene rinunciare a sfidarla!”), ma il mezzo usato per veicolarlo era l’unico davvero idoneo, viste le circostanze, nei confronti di genti primitive che non conoscevano la scrittura ed ammiravano più d’ogni altra cosa il potere delle armi.
Da allora, per merito di Cesare e della sua finezza psicologica, la frontiera del Reno fu una tra le più sicure del mondo romano.
Fin qui ho espresso sincera ammirazione per lo sconfinato talento dello statista e del condottiero, ma non si dimentichi che – secondo la felice espressione di Antonio Spinosa – Cesare fu anzitutto un “grande giocatore”: le sue aperture furono dettate il più delle volte da calcolo politico e, quanto alla proverbiale clemenza, essa era riservata a chi poteva tornargli utile in futuro.
Il più grande dei romani era in fondo un cinico. Non a caso al più cavalleresco e indomito fra i suoi competitori, il gallo Vercingetorige, il dictator non risparmiò l’umiliazione del carcere Mamertino e una pena ignobile: quell’uomo, pur degno di rispetto, non gli serviva – e poi era soltanto un “barbaro”. Merita comunque sottolineare che nell’assassinio di Cesare furono coinvolti molti romani d’alto rango che egli aveva beneficato e protetto: la Storia beffa talora malignamente anche i suoi protagonisti.
“Ricordati che sei solo un uomo”, era costume rammentasse uno schiavo ai vincitori durante il corteo trionfale: per assurgere finalmente a Divus Caio Giulio Cesare dovette passare per il lavacro della morte.