Come noto, l’ultimo trentennio è stato identificato quale fase storica caratterizzata dalla globalizzazione liberista. A livello di stato nazionale, il paradigma socio-economico via via affermatosi presuppone che le leggi del mercato devono prevalere rispetto a interferenze dei poteri pubblici, anche se queste sono suggerite da considerazioni o scrupoli di ordine sociale.

I singoli individui, protagonisti del proprio destino, meriterebbero la condizione di benessere relativo in cui si trovano. La loro produttività dipenderebbe unicamente da essi stessi, in particolare dall’impegno profuso nell’inseguimento del successo personale. Si è asserito poi che il libero mercato concorrenziale – sempre efficiente e tendente all’equilibrio fra domanda e offerta – avrebbe portato ad aumenti di ricchezza e a livelli di vita più elevati per tutti i settori della società. Inoltre, secondo la teoria del ‘trickle down’ persino politiche regressive e politiche economiche che favoriscono le classi più abbienti avrebbero finito per beneficiare tutti, per cui andavano implementate riduzioni delle imposte, in ispecie a favore delle imprese private.

Durante lo stesso trentennio, in Italia, la formazione politica erede del Partito Comunista – attraverso varie ‘evoluzioni’ – si è gradualmente adeguata al vento liberista, accedendo finanche all’area di governo. Il Partito Democratico è stato fondato quando la metamorfosi della sinistra era ormai compiuta. Paradossalmente, si avvertivano allora i primi scricchiolii dell’ordine economico-finanziario liberale. (La grande crisi finanziaria del 2007-2008 e la annessa Grande Recessione).

Il PD è sorto dalla fusione fra l’ormai sbiadita sinistra (detta riformista) e parte della ex Democrazia Cristiana (che non aveva voluto schierarsi con Berlusconi). Il partito è nato avendo comunque già relegato in soffitta qualsivoglia progetto di analisi critica rivolta al funzionamento della società. Ne è derivata, di essa, una visione semplicistica: era sufficiente occupare il ‘centro’, considerato onnirappresentativo dei vari interessi sociali. Una sorta di luogo geometrico del sistema di equilibri parziali dell’organizzazione sociale. Ma veniva ignorata la complessità dell’oggetto sociale con le sue articolazioni. Assecondare gli interessi di una porzione della società, assicurandole dei benefici, non equivale a estendere gli stessi a tutte le rimanenti porzioni. Non si tratta di un gioco a somma positiva.

In 15 anni di esistenza, il PD si è distinto per l’appoggio a politiche pro-mercato, con tanto di sostegno incondizionato ai ‘governi tecnici’, all’austerità impostaci dalla UE, a politiche favorevoli all’impresa e alla finanza private. Contestualmente, si aveva lo smagrimento dei settori pubblici strategici e – avendone depresso il potere contrattuale – l’abbandono dei salariati al loro misero destino. Così, sono drammaticamente aumentati i divari sociali.

Ciononostante, il PD ha continuato a essere equivocamente identificato con la sinistra, anche se ciò che lo distingueva dalla destra era ormai soltanto la rivendicazione dei diritti ‘arcobaleno’.

In realtà, il PD è garante dei poteri economico-finanziari maggiormente proiettati a livello internazionale e dei ceti professionali benestanti. A livello di rappresentanza ‘tangibile’, gli è stata affibbiata l’etichetta di partito delle Zone a Traffico Limitato.

Dopo la rovinosa e impopolare risposta data alla Grande Recessione, il PD non ha comunque voluto deflettere dal corso liberista ormai intrapreso. Intanto, per via della loro animosità nei confronti dell’ordine delle elites, le compagini politiche rafforzate dagli effetti di tale inappropriata risposta sono state bollate quali populiste. La nuova dicotomia del panorama politico ha così visto partiti ‘moderati e responsabili’ – sostenitori dei ‘poteri forti’ e della loro macchina mediatica – e partiti ‘irresponsabili e populisti’. E il PD ha voluto a tutti i costi ergersi a paladino del primo schieramento.

Dopo la sconfitta ‘annunciata’ del 25 settembre 2022, subita da parte dell’incolore segretario Enrico Letta – rimasto ostinatamente abbarbicato al liberismo dell’agenda Draghi –, ora il partito si appresta a un nuovo congresso, il quale dovrebbe sancirne una sorta di ‘ricostituzione’. (Il partito ha perso 6 dei 12 milioni di voti che aveva nel 2008). E’ auspicabile che il PD, se vuole uscire dalle ZTL e diventare un partito di popolo collocato a sinistra, sottoponga ad autentica e genuina revisione i propri orientamenti.

Per riuscirci, gli ci vorrebbe però un vero salto quantico, sia in termini di cultura politica che in termini di classe dirigente. Il che, viste le candidature alla prossima segreteria e le prime uscite degli aspiranti ad essa, sembra piuttosto improbabile.