Anche i più malvagi e dissoluti fra i dodici Cesari effigiati da Svetonio possono vantare qualche gesto, qualche aspetto caratteriale o qualche arguzia che li rende affascinanti ai nostri occhi: tutti, a parte Aulo Vitellio, che dei tre effimeri imperatori succedutisi dopo la caduta di Nerone sembra l’unico salito al trono per puro caso, senza una parte da recitare se non quella del buffone. Galba impersonava la rivincita senatoria sui Giulio-Claudi, Otone la reazione neroniana (e quella popolare, per certi versi), mentre Vitellio ci appare di primo acchito come un intruso, la sua ascesa un capriccio del destino – come vedremo non è esattamente così, ma la mediocrità e la rozzezza dell’uomo sono innegabili. Nasce alla fine del lungo principato “costituente” di Augusto da una famiglia di recente affermazione: dal padre console, che fa di nome Lucio, Aulo apprende le arti dell’intrigo e della piaggeria, che oggi come allora sono più remunerative del merito.

Dopo un’infanzia costellata da (presunte) turpitudini alla corte di Tiberio a Capri, Vitellio stringe amicizia con Gaio Caligola, di cui condivide la passione per le corse con le bighe: durante una gara subirà un incidente che lo renderà zoppo. Bazzica poi la reggia di Claudio e quella di Nerone, mostrandosi servizievole e “simpatico”: la grazia imperiale gli consente di accumulare incarichi che non sempre ricoprirà in maniera biasimevole (in Africa governa con onestà e giustizia, cosa rara per l’epoca).

Svetonio e i cronisti suoi coevi stilano un lungo elenco di vizi del futuro sovrano, e al primo posto mettono un’ingordigia che sconfina nella bulimia (“pranzava tre o quattro volte al giorno, distinguendo fra colazione, pranzo, cena e orgia, e riuscendo a tollerarli tutti per la consuetudine di vomitare” – Svet. Vitellio, XIII, 1) e si accompagna a una smodata passione per il vino. Gli stravizi finirono per imbruttire e appesantire un fisico di per sé sgraziato: “aveva infatti una statura enorme, era rosso in volto per l’ubriachezza cronica, con un ventre obeso e una gamba difettosa” (XVII, 2). L’impietosa descrizione è confermata dalle monete coniate nell’anno 69, che raffigurano un viso gonfio e flaccido e una vistosa pappagorgia. Sempre secondo Svetonio gli unici freni alla crudeltà (supposta) del personaggio erano rappresentati da una pigrizia proverbiale e da una irresolutezza che faceva di Vitellio un burattino delle volontà altrui. Pare fosse prodigo e trattasse con umanità e cameratismo i soldati, ma questo atteggiamento viene ricondotto dai critici alla volgarità del suo animo plebeo.

Verso la fine della storia, quando è ormai vicino ai sessant’anni (età ragguardevole in una società preindustriale), Aulo Vitellio viene nominato da Nerone governatore militare della Germania inferior. La scelta non è troppo sorprendente, benché l’uomo non abbia maturato esperienze in zona di guerra: il servilismo procura favori, e in ogni caso saranno esperti sottordini a occuparsi di tenere a bada le riottose tribù locali.

La rivolta di Giulio Vindice in Gallia (primavera del 68 d.C.) rompe però il vaso di pandora, invogliando molti generali a prendere la strada di Roma: il potere neroniano si dissolve come fumo, e due alti ufficiali di stanza in Germania pensano essere giunto il loro momento. Valente e Aulo Cecina si detestano a vicenda: qualsiasi mossa fatta da uno sarebbe contrastata dall’altro, inoltre fa difetto loro il prestigio (rectius: la popolarità) necessario per concorrere al principato. Mettono da parte la loro rivalità e concludono che è meglio essere secondi a Roma che primi in un accampamento. Hanno bisogno di un pupazzo, e lo individuano nel crapulone senza pedigree militare che si ritrovano fra i piedi e che convincere – valutano – non sarà troppo complicato. Dopo qualche titubanza (e parecchie pressioni) Aulo Vitellio accetta lusingato l’impero offertogli dalle legioni di stanza in Germania: non dovrà neppure scendere in battaglia, saranno i suoi legati a prendersi carico dell’impresa – per i due esperti uomini d’arme Otone è un ostacolo superabile. Marco Salvio si rivelerà contrariamente alle attese un avversario degnissimo, ma a Bedriaco le truppe di Valente hanno egualmente la meglio e Vitellio può entrare a Roma tra due ali perplesse di folla. Da allora regna per quasi un anno senza governare: a sentire Svetonio passa il tempo a ingozzarsi e ad assistere a spettacoli di mimi e cantanti.

Il periodo di torbidi non è tuttavia terminato: alcuni legati delle province orientali offrono la corona a Vespasiano, che sta pacificando la Giudea. Il generale viene dalla Sabina, e la sua famiglia è di origini modeste e legate alla terra: compensano l’oscurità dei natali una perizia bellica a tutta prova e un sano realismo di matrice contadina. Soppesa i pro e i contro e decide di mettersi in gioco: nell’Urbe si diffonde il panico tra i seguaci di Vitellio. Il più spaventato è l’imperatore, che cerca un accomodamento: convoca Sabino, fratello del nuovo pretendente, e propone di cedere il trono in cambio di un pensionamento dorato. A comandare sono però Valente e Cecina, che non intendono rinunciare a potere e vita: nell’incendio che divora il Campidoglio trovano la morte Sabino e i suoi partigiani. Aulo Vitellio osserva da lontano le fiamme, banchettando: le sue decisioni non contano più nulla, ammesso che abbiano contato in passato. Da subito la guerra prende una piega sfavorevole: ironia della sorte l’avanguardia dell’esercito di Vespasiano, condotta da Marco Antonio Primo, batte i nemici proprio a Bedriaco, e poi marcia su Roma.

A questo punto Vitellio non sa più che pesci pigliare: incapace di elaborare quella che oggi definirebbero una exit strategy si affida all’assurda illusione che Vespasiano, malgrado la perdita del fratello maggiore, acconsenta a un accordo. Perché mai il vincitore dovrebbe mostrarsi magnanimo? Fatto sta che le sue truppe entrano in città senza combattere, mentre intorno al monarca sconfitto si fa il vuoto – ormai abbandonato da tutti (Cecina ha già defezionato), Vitellio si rifugia a casa della moglie e, come in un peplum di poche pretese, si barrica nella camera da letto. Arrestato dai soldati supplica di essere incarcerato, ma lo attende un’orribile via crucis: narra ancora Svetonio che “fu trasportato seminudo nel foro, fra grandi oltraggi e insulti, per tutto il percorso della via Sacra, e trattenuto per i capelli con la testa all’indietro, come si fa con i criminali, mentre una spada lo premeva sotto il mento, in modo che mostrasse il suo viso e non potesse abbassare il capo; mentre alcuni gli scagliavano addosso sterco e fango, e altri lo definivano incendiario e mangione, una parte del popolo derideva i suoi difetti fisici (…) Infine, scarnificato con colpi minutissimi e ucciso presso le Gemonie, di lì fu trascinato con un uncino fino al Tevere” (XVII, 1,2). Aggiunge Tacito che nel mezzo di questa scena raccapricciante il morituro, in un soprassalto di dignità, si sarebbe rivolto con queste parole alla massa urlante: “Io fui una volta il vostro imperatore!”

Torniamo allora al quesito iniziale: fu davvero l’elezione del mediocre Vitellio un capriccio della sorte? Forse fu qualcos’altro: un presagio del futuro che aspettava Roma. Per la prima volta un imperatore doveva la sua carica all’esercito e ai generali: in seguito episodi del genere si sarebbero moltiplicati (a ben vedere pure Vespasiano seguì la medesima strada), e ai senatori sarebbe rimasto soltanto il rimpianto per i bei tempi andati – quelli in cui erano stati loro a spadroneggiare.