Nella Gerusalemme Liberata il confine che – perlomeno sulla terra – separa “buoni” e “cattivi” è assai labile, addirittura evanescente: a determinare l’appartenenza all’uno o all’altro campo è nient’altro che la fede professata dai protagonisti. Convertendosi in punto di morte la bella e indomita Clorinda non rinnega le sue azioni passate né tantomeno un’esistenza virtuosa: abbraccia semplicemente la “giusta causa”, e questo la rende degna di ascendere al cielo.
I “pagani”, cioè i musulmani, non sono moralmente peggiori dei cristiani: a decidere le sorti del conflitto è la volontà e talora l’intervento diretto del Creatore, cui invano si contrappongono le forze infernali e gli incantesimi del rinnegato Ismeno (che fa una fine assai miseranda).
In mezzo a una folla di comprimari che non sono tuttavia mere comparse emergono nell’accampamento crociato quattro figure centrali, la prima delle quali è abbastanza stereotipata. Goffredo di Buglione, personaggio storico, ci viene presentato come un condottiero competente, un abile mediatore e un uomo dalla fede incrollabile, ai limiti del fanatismo.
Il Tasso accenna solamente all’orrenda strage di civili avvenuta dopo la “liberazione” di Gerusalemme e non l’addebita al duce, che opportunamente si raccoglie subito in preghiera. Anche a Goffredo tocca un momento di gloria individuale: sul finire della battaglia decisiva uccide in singolar tenzone l’omologo egiziano Emireno, suggellando la vittoria cristiana.
Il suo consigliere Raimondo di Tolosa, anch’egli realmente vissuto, intriga maggiormente il lettore: saggezza ed età avanzata non gli impediscono di partecipare attivamente agli scontri e, dopo l’atterramento ad opera di uno sprezzante Solimano, di menar strage di un centinaio di nemici, fra i quali figura anche il re di Gerusalemme Aladino. Non chiediamoci oziosamente se simili imprese siano alla portata di un singolo guerriero, ancorché forte: l’epica trasfigura la realtà da cui prende spunto tanto nei libri quanto sul grande schermo.
Il maggior contributo al trionfo cristiano viene tuttavia da due giovani eroi senza paura, ma non senza macchia. Il giovinetto Rinaldo, gloria (letteraria) della famiglia d’Este, pare la reincarnazione di Achille: la sua ira funesta, all’inizio, getta lo scompiglio nel campo crociato, lo sdegnoso abbandono della lotta produce quella che Crispi avrebbe definito “una tisi militare”, il rientro in scena capovolge le sorti della guerra.
Al pari del Pelide egli è invulnerabile, ma non ai sentimenti: ammaliato da Armida si pasce di languidi piaceri in un’isola fiabesca e, una volta rinsavito, accantona la passione amorosa senza riuscire davvero a liberarsene. Rispetto al modello omerico Rinaldo è più farfallone e melodrammatico, meno tormentato nel profondo: non ha alle spalle scelte drammaticamente definitive con cui fare i conti a ogni istante, e la vergogna per aver abbandonato i correligionari nel momento del bisogno è un sentimento assai meno intenso della furia disperata che si impadronisce di Achille dopo la morte di Patroclo.
Quando indossa l’armatura Rinaldo si trasforma in un semidio (oggi diremmo: in un supereroe): i colpi dei campioni pagani non gli arrecano alcun danno, i suoi invece non lasciano scampo – gliene basta uno, terribile ed “estranio”, per tagliare in due il gigantesco Adrasto, ed anche il duello con l’animoso Tissaferne assomiglia ad un’esecuzione.
Terminato il compito di guerriero l’uomo e la sua passionalità riprendono però il sopravvento: Gerusalemme grazie a lui è presa, ma più che alla gloria celeste il pensiero va ad Armida, che egli ritroverà e riabbraccerà piangente. Calcolo, inganno, intrighi e lussuria cedono il passo all’amore, sbocciato forse su una spiaggia delle isole Fortunate. Se il fittizio capostipite degli Estensi è una macchina da guerra dal cuore tenero, il normanno Tancredi si segnala più per l’abilità di schermidore che per la vigoria fisica e cela (neanche troppo, a dire il vero) un animo sensibile e delicato.
Per la nemica Clorinda, incontrata per la prima volta sulle sponde di un ruscello, concepisce un amore spirituale di cui la donna rimane inconsapevole fino all’ultimo e che lo porta quasi (Canto III) a consegnarsi inerme – e inerte – alla furia guerresca di lei. Per Tancredi la fede è piuttosto un conforto e una speranza che un dovere o uno sprone, e questo fa di lui un personaggio straordinariamente affascinante e “moderno”: egli uccide sì Clorinda nella notte della sortita, ma soltanto perché non l’ha riconosciuta (è uscita indossando un’armatura presa a prestito), e nemmeno la conversione in extremis dell’amata basta a lenire il suo strazio.
Quando poi l’eroe è chiamato a spezzare il sortilegio che avvolge il bosco tagliando l’albero stregato basta la voce di lei, magicamente riprodotta da Ismeno, a farlo desistere: nemmeno una causa “santa” può giustificare ai suoi occhi un oltraggio arrecato a colei che, anche da morta, seguita a venerare.
Anche in altri frangenti si manifesta l’umanità del cavaliere: si pensi al suo comportamento nobile e disinteressato nei confronti della prigioniera Erminia, che infatti s’innamora vanamente di lui, o al rispetto mostrato per il nemico vinto (che pure l’ha quasi ucciso): “Disse Tancredi allora: – Adunque resta / il valoroso Argante a i corvi in preda? / Ah per Dio non si lasci, e non si frodi / o de la sepoltura o de le lodi. / Nessuna a me co ‘l busto essangue e muto / riman più guerra; egli morì qual forte, / onde a ragion gli è quell’onor dovuto / che solo in terra avanzo è della morte” (Canto XIX, 116-117). E’ stato scritto che Tancredi è il vero protagonista del poema – probabilmente è così, perché egli riassume in sé lo spirito di un’epoca nuova e, in fondo, i dubbi, i turbamenti e le malinconie che afflissero l’autore.
Non meno riuscito è però il personaggio di Argante, la cui disfida col normanno è (più ancora della grande battaglia conclusiva) il momento culminante della narrazione. Il circasso ci viene presentato come un titano fiero e orgoglioso, assetato di gloria. Coraggioso fino alla temerarietà, non ha paura della morte – ed anzi nell’ultimo atto sembra quasi cercarla. L’estrema immagine che conserviamo di lui ha un che di caravaggesco: “e poi vider nel sangue un guerrier morto / che le vie tutte ingombra, e la gran faccia / tien volta al cielo e morto anco minaccia” (XIX, 102), ma prima di congedarsi disperato e rabbioso regala uno sguardo e parole struggenti a Gerusalemme ormai caduta, e la sua è una commossa ammissione di sconfitta.
Le minacce che rivolge all’avversario con cui si scontrerà in un’angusta valle, lontano dalla mischia dei fanti, mascherano male la sconfinata amarezza e il senso di inutilità che gli pervadono l’animo, conducendolo inevitabilmente – direi consapevolmente – a soccombere. Resta Solimano, che merita l’appellativo di “magnifico” non meno dell’omonimo sultano turco che ai tempi del Tasso fece tremare Vienna e l’Europa intera.
Già la scelta del nome è un omaggio alla magnanimità del “tiranno” niceno, ma sono le sue imprese a illustrarlo: combatte solo contro cento, dirige, esorta, consiglia – è lui l’anima della resistenza musulmana, pur non confidando affatto nella vittoria. L’affetto del poeta per il suo personaggio si palesa nella profezia fattagli da un mago (sarà un suo discendente, il Saladino, a riconquistare Gerusalemme) e persino nella scena della morte. Dopo aver compiuto gesta prodigiose il turco si trova dinanzi Rinaldo, la sua nemesi: vede con i propri occhi il colpo tremendo sferrato ad Adrasto, e a quel punto il furore guerriero lo abbandona e subentra una desolata rassegnazione di fronte all’inevitabile.
Il Tasso paragona quella subitanea sensazione allo stato angoscioso di dormiveglia d’un malato in preda alla febbre. Dopo aver tenuto testa da par suo ai cristiani Solimano cede di schianto le armi, inchinandosi alla sorte più che al nemico – ma l’epitaffio dedicatogli dal Tasso eterna la sua grandezza: “Giunge all’irresoluto il vincitore, / e in arrivando (o che gli pare) avanza / e di velocitade o di furore / e di grandezza ogni mortal sembianza. / Poco ripugna quel; pur mentre more, / già non oblia la generosa usanza: / non fugge i colpi e gemito non spande, / né atto fa se non altero e grande” (XIX, 107).
Rinaldo è l’inarrestabile strumento di Dio o del Fato, Solimano l’Uomo rinascimentale che si spezza senza piegarsi, ed entra nella morte a occhi aperti.