Ad onta dell’origine modesta e della fisionomia un po’ contadinesca Vespasiano non diventa imperatore per un capriccio della sorte (che pure lo favorisce, mandando allo sbaraglio candidati improbabili): già sotto Claudio (41-54 d.C.) si è messo in mostra come generale, dando un valido contributo all’assoggettamento della Britannia, e l’incarico di reprimere la pericolosa rivolta giudaica, affidatogli da Nerone, è un riconoscimento alla carriera. Quando gli nasce il primogenito (39 d.C.), tuttavia, il militare venuto dalla provincia non deve passarsela troppo bene, dato che Svetonio annota che Tito vide la luce in una modesta soffitta. Di lì a poco le cose cambieranno e il rampollo di Vespasiano avrà l’onore di essere allevato nel palazzo imperiale, ricevendo un’educazione raffinata e stringendo amicizie influenti (sarà intimo dello sventurato Britannico).
Sulla giovinezza di Tito non abbiamo molte notizie a parte quelle raccolte dal già citato Svetonio che, fedele al suo soprannome (postumo) di “portinaia del palazzo imperiale”, affastella particolari contraddittori e talvolta di poco rilievo, consegnandoci un ritratto in chiaroscuro del futuro sovrano. Come sempre le virtù sono giustapposte ai difetti: emerge la figura di un giovanotto intelligente, colto e creativo, che brucia brillantemente le tappe del cursus honorum, ma che oltre a coltivare musica e poesia indulge volentieri alla lussuria e alla crapula, rivelando una tendenza alla crudeltà che non lascia ben sperare. Sarà un secondo Nerone?, si domandano in molti, anche dopo che il padre l’ha designato come successore. In verità le critiche rivolte al “primo” Tito appaiono al lettore scafato moralistiche e un tantino ipocrite: al pari della gioventù dorata odierna quella del I secolo d.C. profittava di ricchezza e status per godersi la vita “fino alla feccia”, sperimentando piaceri negati alle masse – e d’altra parte, come ci insegna l’esperienza prima ancora che la Storia, in una stessa persona possono convivere l’amore per la bellezza, un temperamento poetico e turpi passioni. Quella romana, inoltre, era una società secondo i nostri parametri violentissima, in cui la suddivisione in classi era ferrea (e non dissimulata) e l’esistenza stessa un bene effimero, che nessuno si sarebbe sognato di tesaurizzare: il dotato parvenu Tito studia da statista, ma nel frattempo si diverte anche perché così fan tutti (quelli che possono).
Lo spartiacque fra una gioventù (mediamente) scapestrata e il supremo potere è rappresentato dalla parentesi in Giudea, dove Tito assiste il padre per poi sostituirlo come comandante in capo. Il rinnegato Giuseppe Flavio elogia senza ritegno l’erede, che tuttavia fatica ad apprendere il mestiere di dux: Tito è sempre in prima fila e galvanizza con la sua presenza i soldati, ma lo scontro individuale è un lusso (Cesare insegna) che lo stratega deve concedersi con parsimonia – e solo ove risulti necessario. L’impulsività e la brama di gloria espongono il nostro a inutili rischi, ma alla fine – grazie soprattutto alla professionalità dei legionari – Gerusalemme cade assieme alle altre fortezze, e per i ribelli non c’è clemenza: chi scampa alla morte finisce schiavo. Nulla di cui stupirsi: il figlio di Vespasiano si attiene alla regola codificata da Virgilio “parcere subiectis et debellare superbos”. Il successo non gli dà comunque alla testa: la fedeltà al padre resta salda e sarà ripagata perché il giovane, che ha superato la trentina, viene associato al trono. Quando diviene imperatore è ormai prossimo ai quarant’anni: ha maturato una considerevole esperienza, eppure i sudditi non si fidano completamente di lui.
Li conquisterà presto, così come conquista – almeno in parte – i suoi biografi. Se il Caligola effigiato in busti e monete assomiglia assai poco alla malevola caricatura fattane da Seneca e Svetonio, qualcosa del genere (ma alla rovescia!) si può dire anche a proposito di Tito, che la statuaria ufficiale raffigura tozzo e piccolo di statura, con un volto squadrato e dai tratti piuttosto grossolani. L’espressione è cordiale, ma il ritratto svetoniano è decisamente cortigianesco malgrado la realistica osservazione finale: “Sin dall’infanzia si palesarono in lui quelle qualità fisiche e morali che brillarono sempre più nel corso degli anni: era di notevole bellezza, dalla quale non traspariva meno autorevolezza che grazia, e aveva una robustezza eccezionale, sebbene non fosse alto e avesse il ventre leggermente prominente (Divo Tito, III 1)”. Può darsi che i canoni estetici romani fossero diversi dai nostri (o dai miei…), ma le lodi all’aspetto fisico del Divo suscitano il fondato sospetto di piaggeria.
Più attendibile, perché confermato da altre fonti, è il resoconto svetoniano dell’attività di governo, improntata a un’inedita sollecitudine nei confronti dei sudditi che frutterà a Tito la nomea di “delizia del genere umano”. Che del proprio operato e dell’affetto popolare egli si compiacesse è dimostrato da una frase che si dice abbia pronunciato durante un banchetto, al termine di un giorno in cui non aveva elargito benefici ad alcuno: “Amici, ho perduto la mia giornata!” Non dobbiamo ovviamente figurarci una specie di santo cristiano né un Francesco d’Assisi ante litteram che, dopo le stravaganze giovanili, si spoglia dei beni materiali facendosi povero fra i poveri: Tito Flavio ha represso la ribellione in Palestina con pugno di ferro, disseminando le colline di croci, e fra le “buone azioni” che il biografo gli attribuisce c’è l’indizione di spettacoli gladiatori senza precedenti e sanguinose naumachie.
La passione per le cruente performance dell’arena e la stessa pena di morte sono oggi generalmente considerate intollerabili, ma duemila anni fa appartenevano alla “normalità” e non scandalizzavano nessuno: sono la mentalità contemporanea e la fiducia illimitata nel progresso, prodotti del sistema economico occidentale, a elevare ad “assoluti” dei valori che, al contrario, sono mutevoli nel tempo. Gli antichi romani veneravano piuttosto il passato che il futuro e a differenza nostra non erano avvezzi a pensare in termini finalistici, ma in ogni caso stimavano i governanti onesti e capaci – e il figlio di Vespasiano rientra senz’altro nel novero. Della spietatezza giovanile non troviamo traccia nei due anni di regno: Tito non perseguitò né tantomeno fece giustiziare gli oppositori, punì esemplarmente i fautori di delazioni e impiegò il suo patrimonio personale per soccorrere le popolazioni investite da epidemie e calamità naturali. Durante il suo principato si registrò la terrificante eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei ed Ercolano: le misure subito adottate da Tito per far fronte a un’emergenza inimmaginabile denotano buon senso e spirito pratico. Racconta Svetonio che “Trasse a sorte fra i consolari coloro che dovevano incaricarsi della restaurazione della Campania; per la riedificazione delle città distrutte usò i beni di quelli che erano periti nell’eruzione del Vesuvio senza lasciare eredi (Divo Tito, VIII 4 – anche Dione Cassio riporta questi provvedimenti)”.
Nell’81 d.C. Tito si ammala improvvisamente e muore: si parla di veleno ma non ci sono certezze in proposito, anche se i rapporti con il fratello minore Domiziano erano piuttosto tesi. Prima di soffermarsi sull’addolorata reazione popolare alla tragica notizia lo storico scrive una frase sibillina: “In quel frattempo morì prematuramente, con maggior danno per il genere umano che per se stesso (X 1)”. Svetonio sottintende che se il periodo di regno fosse proseguito a lungo (Tito spirò a poco più di quarant’anni) sarebbero forse riaffiorati i vizi giovanili: anche Caligola e Nerone, in fondo, avevano dissimulato agli esordi la loro vera natura.
Tutto è possibile, ma è opportuno prendere in considerazione due elementi. Il primo è che Tito giunse al principato in età matura, dopo aver rivestito cariche e comandato eserciti (Caligola invece ascese al trono a 25 anni, Nerone a meno di 18). Il secondo è che egli aveva un modello da seguire, quello paterno: Vespasiano era stato un eccellente amministratore e soprattutto un uomo che aveva saputo restare con i piedi per terra, facendosi beffe delle ambizioni “divine” dei predecessori. Tito Flavio non era un predestinato per nascita e ceto, possiamo dunque supporre che abbia preso molto sul serio il proprio compito, valutandolo alla stregua di un onere piuttosto che di un onore. Affermò una volta che “Il principato è assegnato dal fato”, e non c’è ragione di dubitare della sua sincerità – anche perché quello stesso fato, cancellando in un solo giorno cittadine fiorenti, gli aveva chiaramente rivelato l’impotenza dell’uomo e la vanità delle sue ambizioni.
Domiziano Flavio, più giovane di lui di una decina d’anni, si sarebbe dimostrato di tutt’altra pasta.