Due Catoni emergono dalle pagine della Storia di Roma: del primo, detto il Censore (o Cato Maior), abbiamo già parlato, ma è il discendente a suscitare in chi scrive umana simpatia.
Marco Porcio Catone Minor nasce da illustre famiglia plebea nel 95 a.C., qualche anno dopo colui che egli cercherà per tutta la vita di ostacolare: Caio Giulio Cesare, l’inarrestabile “Spirito del mondo”. Allevato nel culto dell’omonimo progenitore (che era tutt’altro che uno stinco di santo), s’iscrive naturalmente al partito degli ottimati, illudendosi che quella trista congrega di perdigiorno, affaristi e usurai rappresenti una Roma “virtuosa” che esiste oramai soltanto nelle sue fantasie. In realtà dovremmo dire che gli antichi costumi resistono in lui, Marco Porcio: la sua estrema integrità, il disprezzo per gli agi e le ricchezze ne fanno un personaggio lodatissimo in pubblico, ma tenuto a distanza e in fondo deriso dai suoi pari. Anche il cursus honorum procede a rilento: a 31 anni è questore, a trentatré tribuno della plebe (e non si guadagna l’affetto popolare); alla pretura giunge all’età in cui altri sono già stati consoli. E’ come se fosse venuto al mondo con due-tre secoli di ritardo: la sua proverbiale onestà ha qualcosa di arcaico, per taluni di gretto, e suona come un rimprovero – se non come un affronto – a contemporanei privi di remore morali. Anche agli storici moderni Cato Minor sembra fuori posto nella società del I secolo a.C. – nella sua monumentale Storia di Roma Theodor Mommsen ne traccia un ritratto nient’affatto lusinghiero: “uomo del miglior valore e dotato d’un raro spirito di sacrificio e pure una delle più bizzarre e più accigliate e più sgradevoli figure di questo tempo così abbondante di caricature politiche. Onesto e fermo, serio nel volere e nell’operare, pieno di devozione per la sua patria e per l’avita costituzione, ma cervello lento e senza passioni né sensuali né morali, avrebbe forse potuto diventare un discreto contabile di stato”. Il giudizio insomma è lapidario: un brav’uomo certo, ma arido, privo di fantasia e limitato – quasi uno “scemo del villaggio”.
C’è del vero in questa stroncatura comunque ingenerosa: aggrappato a principi astratti e sbeffeggiati, privo di duttilità politica e incapace di scorgere le cause di avvenimenti che si susseguono a ritmo incalzante, Catone il Giovane si presta, in fondo inconsapevolmente, a farsi strumento di un’oligarchia senza scrupoli che mira soltanto alla conservazione del proprio vacillante potere. Mentre l’appoggio offerto agli ottimati dall’homo novus Cicerone è dettato da ambizione personale, quello di Marco Porcio è frutto di miopia – sembra che egli alle volte si compiaccia di distogliere lo sguardo e, per dirla con Montanelli, di turarsi il naso. E’ nell’affaire Catilina che dà il meglio e il peggio di sé: Cesare ha quasi indotto il Senato a usare clemenza verso i congiurati, allora Catone si alza dal suo scranno e sfodera un discorso violento, condito da allusioni nemmeno tanto velate a una complicità del futuro conquistatore delle Gallie con i rivoltosi, che vengono condannati a morte senza processo (“se fra lo spavento di tutti egli – Cesare ndr – è il solo a non avere paura, tanto più importa che io e voi temiamo”). Catone si rende così corresponsabile di una gravissima violazione di quell’ordinamento costituzionale che pure difende a parole – e sospetto soprattutto in odio a Giulio Cesare, di cui prima degli altri ha intuito la pericolosità per una Res publica che si sta autocondannando. Non è con le esecuzioni capitali e lo stato d’assedio che si può fermare il rinnovamento, se questo è reso necessario dalla fatiscenza delle strutture esistenti: Catone mostra di non rendersi conto che la dissoluzione (morale e politica) dello Stato e l’emergere di avventurieri sono imputabili al malgoverno della sua pars.
Siamo nel 63 a.C.: il nostro uomo ha ancora parecchi anni davanti a sé. Li spende abbastanza bene, a parer mio, anche se seguita a militare dalla parte sbagliata (ammesso che l’altra sia “giusta”). Lo mandano a governare l’isola di Cipro: benché non si accorga dei maneggi di Bruto (sempre questo voler serrare le palpebre!), non deruba nessuno e torna a casa “povero”. Lo giudichiamo un comportamento normale? Non lo è: proconsoli e propretori romani arraffavano in provincia tutto il possibile, per rientrare dai debiti e procacciarsi un avanzamento di carriera o uno scatto sociale. Catone no: amministra con giustizia, si fa rispettare. In un universo corrotto non è vanto da poco. Continua a odiare Cesare, di cui non coglie l’inquietante grandezza, ma non si può dire che la sua sia un’immotivata ossessione: anticipa la sensibilità moderna quando chiede in Senato, dopo l’orribile strage di Usipeti e Tencteri, che il condottiero sia per punizione consegnato ai nemici. Di fatto lo accusa di crimini contro l’umanità: ha ragione, ma stavolta è in anticipo di migliaia di anni (anche su di noi), e il suo appello cade nel vuoto.
Il consolato gli viene negato, ma quando si tratta di parare la minaccia di Cesare Catone non si tira indietro. Non ama Pompeo – un piccolo Cesare non all’altezza – e presto si avvede che a muovere Cicerone e compagnia sono paura e brama di potere: cionondimeno si arruola, perché alle sue idee, per quanto stantie, è fedele sul serio. Narrano gli antichi che, nella tenda del comandante repubblicano, si tiene in disparte dagli altri: è disgustato da quella gente impegnata solamente a spartirsi cariche future, lo addolora la prospettiva di una mattanza di concittadini, a qualunque fazione appartengano, biasima il cinismo di “compagni di partito” che gli appaiono sempre più lontani e di cui tocca con mano viltà e opportunismo. Lui è e resta un “uomo contro”, anche se si è lasciato infinocchiare, anche se ha scambiato un’accolta di farabutti per i patres ancestrali. Continua però a rispettare regole che valgono solamente per lui: rifiuta di anteporsi a boriose nullità che magari la carriera se la sono comprata, accetta un ruolo di secondo piano che tuttavia lo espone in caso di insuccesso alla vendetta cesariana.
Prima e dopo Farsalo è “l’uomo dal cervello lento e senza passioni morali” l’unico a non lasciarsi sedurre da prospettive di successo individuale e a soffrire per i lutti che affliggono i compatrioti che stanno dall’una e dall’altra parte; a sconfitta patita si ritira in Africa, ma ormai la voglia di combattere è venuta meno. I fantasmi in cui ha fermamente creduto gli si rivelano per quello che sono, e allora decide di chiamarsi fuori – non per codardia, ma per evitare che altro sangue romano sia inutilmente sparso. Checché pensino di lui i critici dimostra con la sua condotta di non appartenere alla categoria dei fanatici, di coloro cioè che sono disposti a sacrificare felicità ed esistenze altrui a idee prese a prestito: la sola vita che immola è la sua, dopo essersi chiuso nella città-fortezza di Utica. Restituiamo la parola a Mommsen: “Essendo poi entrati in Utica, provenienti dal campo di battaglia, Fausto Silla, figlio del dittatore, e Lucio Afranio, conducendo una grossa divisione di cavalleria, Catone fece un altro tentativo per tenere la città, ma avendo essi messo per condizione di far prima massacrare tutta la borghesia di Utica come infida, egli con raccapriccio respinse una tale proposta, e preferì che l’ultima rocca dei repubblicani cadesse in mano del monarca senza colpo ferire, piuttosto che profanare gli ultimi palpiti della repubblica con un così orrendo macello”. Dopo essersi finalmente imposto a commilitoni indegni di lui Marco Porcio Catone si squarcia il ventre col gladio, meritandosi l’appellativo di Uticense e sottraendo all’odiato Cesare la chance di concedergli un umiliante perdono.
Immagino che il Divo Giulio se la sia presa a male anche perché, a dispetto delle disfatte, Catone il Giovane esce di scena da vincitore morale, oltre che da antico romano.