Narra Erodoto che mentre passava in rassegna l’esercito in cui sembrava riporre così tanta fiducia Serse improvvisamente si rabbuiò. I presenti gli chiesero il motivo di quel repentino mutamento d’umore e lui rispose, afflitto: di tutti questi uomini neppure uno sarà ancora in vita fra cent’anni. Questo valeva evidentemente anche per lui.
Capita che simili lampi di consapevolezza attraversino inattesi le nostre menti: se non li scacciamo subito produrranno effetti devastanti, sprofondandoci in un rassegnato torpore, nell’indifferenza verso ogni cosa – nell’apatia. Possiamo confessare a noi stessi, con un sorriso amaro, di aver sprecato l’esistenza, ma l’idea dell’infinita vanità del tutto ci riesce intollerabile: per non perdere il senno tocca volgere altrove la mente (a Dio, a un ideale, a un impegno) e il Gran Re lo fa, fingendo di recuperare serenità e ottimismo. Quanti gli stanno attorno dimenticano in fretta l’episodio, ma uno di loro almeno lo racconterà allo storico, osservatore compassionevole e sempre attento ai moti dell’animo.
All’inizio la spedizione non incontra ostacoli: intimorite dall’apparato bellico persiano molte città-stato offrono terra e acqua, segno di sottomissione, mentre un’immane flotta di forse mille navi costeggia isole e promontori. Ateniesi e Spartani non hanno però intenzione di cedere senza combattere: i primi salpano con un’agguerrita squadra navale, i Lacedemoni prendono posizione al passo delle Termopili assieme a 6-7 mila alleati. I numeri non sono paragonabili a quelli dell’invasore, ma si tratta pur sempre di un esercito composto da opliti – fanteria pesante avvezza a duri scontri. Inoltre le “Porte calde” sono uno stretto passaggio fra i monti, facilmente difendibile da guerrieri addestrati e motivatissimi: una manovra di aggiramento da parte della cavalleria è inattuabile e un attacco frontale costituisce in quelle condizioni un azzardo. Serse mostra di non preoccuparsi troppo, e lancia le sue avanguardie all’assalto. Come detto i Persiani indossano protezioni leggere e impugnano corti giavellotti: le loro frecce rimbalzano sugli scudi di bronzo degli opliti che poi fanno a pezzi con le lunghe lance (destinate a evolversi nelle sarisse macedoni) chiunque osi farsi avanti. Gli uomini del Gran Re vengono trafitti prima di poter colpire: a sera un gran numero di cadaveri ingombra il campo, ma i Greci sono ancora al loro posto. L’uomo ritenuto più potente del mondo non si dà per vinto, e per chiudere la partita manda avanti i c.d. Immortali dalle sgargianti livree, ma il muro oplitico facilmente resiste e la Guardia ripiega decimata. Su un campo di battaglia ristretto i Persiani non possono far valere le doti di mobilità, e nel corpo a corpo contro fanti quasi invulnerabili (perché coperti di metallo) non hanno scampo: troppa è la superiorità di armi ed equipaggiamenti greci! Solo il tradimento di Efialte – che indica un sentiero di montagna agli asiatici per poi condurli alle spalle dei difensori – rompe lo stallo: il grosso dell’armata greca riesce a disimpegnarsi, Spartani e Tespiesi si guadagnano una morte eroica e (soprattutto) i primi una fama imperitura soccombendo ai dardi degli arcieri. Serse ha appreso una prima lezione: Mardonio aveva torto, gli Elleni sanno combattere – meglio colpirli da lungi e risparmiare le truppe, anche per non deprimerne troppo il morale. Nel frattempo la marina da guerra greca si allontana da Capo Artemisio dopo uno scontro cruento ma non decisivo con le navi fenicie ed egiziane: le perdite sono ingenti da ambo le parti (maggiori quelle persiane), ma la strada per l’Attica è aperta. Presumiamo che il Gran Re cominci a coltivare qualche dubbio sull’efficienza delle sue truppe, che non hanno offerto prove entusiasmanti, ma poi tutto va per il meglio: i Persiani dilagano in Beozia, quindi raggiungono finalmente Atene, abbandonata dai suoi abitanti, e prima di incendiarla la saccheggiano. Maratona è vendicata: Serse potrebbe attendere lo sfaldarsi dell’alleanza nemica, minata da dissidi interni, ma brama una grande vittoria – a intuirlo è Temistocle, il più intelligente fra gli strateghi attici, colui che ha persuaso i concittadini a cercare riparo tra le “mura di legno” delle triremi. Rischiando la taccia di tradimento il comandante invia al re un emissario con suadenti profferte di amicizia: Serse cade nella trappola e manda la sua numerosa flotta contro quella greca, prossima a disperdersi. Gli Elleni sono in inferiorità numerica, ma nell’angusto braccio di mare fra l’isola di Salamina e la costa attica la squadra persiana non riesce a dispiegarsi e le agili triremi ateniesi riportano un successo clamoroso: dal trono di pietra innalzato per lui su una collina il Gran Re assiste attonito alla distruzione della sua flotta. La regale impazienza ha deciso per il momento le sorti del conflitto, ma a questo punto riemergono l’irresolutezza e la volubilità di Serse, che se ne torna frettolosamente in Asia Minore lasciando il comando delle operazioni a Mardonio. Quest’ultimo sa di non poter fallire: è stato lui a consigliare la spedizione, su di lui cadrà la colpa di un eventuale insuccesso – per un intero inverno tergiversa e tratta, puntando a dividere gli alleati, ma nel 479 a.C. viene disfatto a Platea e muore sul campo. Lo stesso giorno i resti della flotta persiana sono annientati a Capo Micale: a naufragare è non solamente il sogno di conquistare l’Europa, ma la stessa credibilità del sovrano achemenide, costretto a ritirarsi nell’entroterra asiatico.
Imbaldanziti dalle ripetute vittorie i Greci spadroneggiano sui mari e in Anatolia, facendosi beffe dei satrapi, cui non restano che le armi spuntate della corruzione e del raggiro: il residuo prestigio persiano finirà affossato un’ottantina di anni dopo, quando nessun suddito di un re ormai rimpicciolito si dimostrerà capace di frenare la marcia dei Diecimila di Senofonte nelle vaste pianure d’Asia. Sarà la litigiosità dei Greci a salvare per il momento l’impero, consentendogli persino di riguadagnare una certa influenza sulla politica ellenica: grazie alla diplomazia e a cospicue elargizioni il monarca iranico metterà gli avversari gli uni contro gli altri, ritagliandosi un ruolo di paciere e allontanando la minaccia sempre incombente. A rompere l’equilibrio sarà un “semibarbaro” come Alessandro di Macedonia che, dopo aver ridotto in suo potere la Grecia, invaderà e conquisterà facilmente l’Asia.
Il momento di svolta è tuttavia la seconda guerra persiana: vivissimo nella memoria occidentale è il ricordo dell’eroismo greco, ma una traccia ancor più profonda hanno impresso nell’immaginario le parole del transfuga spartano Demarato, che rispondendo a Serse contrappone alla servitù degli asiatici le virtù e la libertà degli Elleni, assoggettati alle leggi patrie, non ai capricci di un uomo solo. Questo complesso di superiorità nei confronti degli “orientali” (inaffidabili, servili e, in definitiva, “barbari”) ha iniziato allora a sedimentarsi ed è tuttora vivo in Occidente, quale che sia l’identità degli altri – siano essi Persiani, Ottomani o Russi. La differenza è che gli antichi Greci si battevano per l’indipendenza, gli odierni occidentali puntano invece a imporre il loro dominio e i propri interessi in Oriente in nome di un’indimostrata superiorità spirituale che si ammanta di belle (e false) parole come democrazia, “mondo libero” e autodeterminazione.
Il fallimento di Napoleone e Hitler risuona però come un monito agli orecchi – ci si augura non completamente sordi – degli arroganti avventurieri americani e dei loro compiacenti servi europei.