Il nome di Annibale Barca è familiare pressoché a tutti (perlomeno in Italia), ma la conoscenza delle sue imprese è alquanto superficiale: il liceale tipo sa che attraversò le Alpi innevate, sconfisse i romani in quattro battaglie – nell’ordine: Ticino, Trebbia, Trasimeno e Canne – prima di essere definitivamente battuto da Scipione in Africa e di suicidarsi col veleno per non cadere in mano nemica. La sua fama insomma non è neppure lontanamente paragonabile a quella di un Giulio Cesare, di un Alessandro, persino di un Nerone, entrati nell’immaginario collettivo ben prima che qualche regista alla moda ne inscenasse le gesta.

Inspiegabile? Mica tanto: i due illustri personaggi citati si trovarono “dalla parte giusta della Storia” (quella dei vincitori), e persino il presunto incendiario catalizzò su di sé l’attenzione e la curiosità dei contemporanei, che erano oltretutto suoi sudditi. Di costoro restano statue ed effigi a profusione, particolareggiati ritratti fisici e psicologici, motti celebri e – nel caso di Cesare – resoconti autobiografici. Al contrario le memorie lasciate dal cartaginese andarono perdute al pari degli scritti dei suoi amici e segretari, e si ritiene assai probabile – ma non certo – che un busto ritrovato nei pressi di Capua lo raffiguri.

Il viso attraente di un uomo barbuto e non più giovanissimo ci fissa da incommensurabile distanza: sotto la fronte corrugata gli occhi penetranti sono velati di malinconia, la bocca ha una piega amara. Al di là di quest’opera disponiamo di scarsi indizi sulla sua fisionomia: essendo un semita non aveva di sicuro la pelle nera – come pretende certa cinematografia hollywoodiana “politicamente corretta” – né poteva avere iridi e capelli chiari al pari di Silla e Alessandro Magno; imbevuto di quella cultura vestiva probabilmente alla greca, ma senza ricercatezze, doveva avere un fisico prestante, forse addirittura imponente (come immagina lo storico Giovanni Brizzi, suo studioso e ammiratore), e irradiare fascino virile. L’incipit del celebre giudizio in chiaroscuro di Tito Livio suffraga quest’impressione di una forza e un’energia sovrumane: “Giammai vi fu spirito più versato in cose fra loro opposte, come obbedire e comandare (…) Il massimo dell’audacia nell’affrontare i pericoli, il massimo del discernimento quando vi era immerso. Da nessuna fatica il corpo poteva essere piegato né l’animo vinto. Alla stessa maniera sopportava il caldo e il freddo; la misura dell’alimentarsi e del bere era fissata dal bisogno naturale, non dalla bramosia (…). Le sue vesti non si distinguevano da quelle dei compagni, mentre risaltavano le armi e le cavalcature. Sempre di gran lunga primeggiava tra i cavalieri e i fanti: per primo scendeva in battaglia, per ultimo ne usciva a scontro finito”.

C’è “naturalmente” il rovescio della medaglia: “Queste grandi virtù dell’uomo erano eguagliate dai vizi: la crudeltà disumana, la «perfidia plus quam punica» (su cui torneremo). Spregiava il vero e il sacro, non aveva timore degli dei e non teneva in nessun conto i giuramenti e la fede religiosa”, conclude lo storico di epoca augustea dopo aver sottolineato la notevole somiglianza di Annibale col genitore, cui lo accomunavano i tratti del viso e l’intensità dello sguardo.

Valutazioni nel complesso lusinghiere esprimono Polibio e Cornelio Nepote, vissuto secoli dopo i fatti, ma un aspetto balza agli occhi: tanto le testimonianze dirette quanto quelle indirette provengono tutte dalla parte avversa ad Annibale, cioè da cronisti romani o filoromani. Il cartaginese – sarei tentato di commentare – seguita a “giocare in trasferta” anche da morto, dopo aver trascorso gran parte dell’esistenza lontano dalla patria ed essersi meritato la gloria su campi di battaglia stranieri: più che una beffa, un riconoscimento postumo da parte del Fato, poiché l’encomio tributato a denti stretti da un avversario è senz’altro più probante del plauso di un amico o di un cortigiano.

Molte delle accuse rivoltegli sono poi tendenziose o generiche. La taccia di ferocia e slealtà è perlomeno singolare, considerati i tempi e le notizie in nostro possesso: mentre il barcide seppellì con tutti gli onori il cadavere del console Marcello ucciso in un’imboscata ben altrimenti si comportarono i quiriti con il corpo di suo fratello Asdrubale, che pure sul Metauro era caduto da prode. Il giuramento di eterna inimicizia verso Roma, che secondo la tradizione il padre Amilcare gli impose quando era fanciullo, non farà di Annibale un fanatico (quale fu ad esempio Catone il Censore): egli non si proponeva la distruzione della città nemica, bensì un suo ridimensionamento.

Andiamo però con ordine, partendo dall’episodio che scatenò la Seconda Guerra Punica – bramata da Roma non meno che dal primogenito del grande Amilcare. Succeduto al cognato – un altro Asdrubale, soprannominato “il Bello” – nella carica (ufficiosa) di viceré della Spagna cartaginese, Annibale espugna Sagunto e avanza fulmineo verso il settentrione. Determinati a risolvere in fretta la questione i romani inviano un’armata oltremare, ma il ventiseienne condottiero ha altri progetti: valicati i Pirenei, riesce a seminare gli inseguitori nella valle del Rodano e punta verso le Alpi. Ha deciso, infatti, di sorprendere il nemico portandogli la guerra in casa: a tal fine ha preso con sé i combattenti migliori, lasciando al fido fratello Asdrubale il resto delle truppe e il compito di difendere l’Iberia.

Siamo appena all’inizio dell’autunno, ma nel 218 a.C. il clima era assai più rigido di quello cui siamo oggi abituati e soprattutto le strade di montagna non esistevano proprio: l’esercito dovette incamminarsi quasi alla cieca su sentieri (quando ce n’erano!) scoscesi e coperti di ghiaccio insidioso, esponendosi agli attacchi dei montanari. Fu una traversata epica e terrificante, che costò al Barca un prezzo insopportabile in termini di uomini e mezzi; ma quando alla fine incominciò la discesa egli poté additare ai superstiti l’immensa e fertile pianura padana – ricco compenso per gli immani sacrifici.

La riuscita dell’impresa fino allora reputata irrealizzabile di varcare montagne alte fino al cielo sgomenta i romani, che però reagiscono con prontezza: il console Scipione senior si mette immediatamente sulle tracce dello sfrontato invasore, sicuro di annientare le sue schiere dimezzate. L’azzardo tuttavia ha pagato: il superamento di una prova “impossibile” ha galvanizzato gli eterogenei guerrieri al seguito di Annibale, trasformandoli in un esercito coriaceo, coeso e fiducioso nelle proprie risorse oltre che nell’infallibilità del giovane duce.

Il primo contatto avviene sul Ticino: è poco più di una scaramuccia tra cavalieri, ma quelli romani hanno la peggio e lo stesso console viene gravemente ferito. Quella che al Senato poteva sembrare quasi un’operazione di polizia si sta pian piano trasformando in una faccenda seria e preoccupante – anche perché i galli cisalpini, sottomessi da poco, paiono sensibili alle lusinghe dell’inafferrabile, enigmatico straniero.

(La seconda parte uscirà sabato 21 novembre)