E’ il principio dell’anno 1532 quando una spedizione spagnola condotta da un avventuriero di nome Francisco Pizarro approda a Tumbez, sulla costa nord del Perù dominato dagli Incas. Sono 168 uomini in tutto, molti di meno di quelli che hanno accompagnato Hernan Cortes nell’avventura messicana, e anche il comandante è inferiore al modello: vengono entrambi dall’Estremadura, ma mentre Cortes ha studiato legge a Salamanca, conosce i classici e l’arte militare, Pizarro è un semianalfabeta che in patria si guadagnava il pane come porcaro.
I metodi sono gli stessi: spicci, anche se il nuovo arrivato mostrerà sin da subito una marcata propensione per il raggiro e il tradimento, e totale assenza di scrupoli. Lo sbarco e le prime scaramucce con i nativi non passano inosservati: gli infaticabili chasquis (=corrieri) forniscono al sovrano del Perù informazioni “in tempo reale” dettagliate e abbastanza precise, evidenziando persino la lentezza di caricamento di quegli strani arnesi di metallo che producono il rumore del tuono e sputano fuoco.
Atahualpa ascolta e riflette tra sé. Per conquistarsi il titolo di Sapa Inca di Tahuantinsuyu, i “Quattro Cantoni” del mondo, ha dovuto combattere e vincere una sanguinosa guerra civile contro il fratellastro, e la nobiltà della capitale Cuzco lo detesta considerandolo un usurpatore.
Il figlio legittimo di Huayna Capac, l’imperatore morto di vaiolo nel fiore degli anni, è infatti Huascar, lo sconfitto: la madre di Atahualpa, una principessa del settentrione, non era la Coya, cioè la sposa reale, bensì una semplice concubina.
Il vincitore si gode i bagni termali a Cayamarca, protetto da un esercito di trentamila soldati, ed elabora a mente fredda una strategia. Colpisce il contrasto fra il suo atteggiamento e quello del “collega” Montezuma, il Grande Arringatore azteco: quest’ultimo si è fatto prendere dal panico e dall’incertezza, interrogandosi sulla natura umana o divina degli invasori e sforzandosi in ogni modo possibile di evitare o procrastinare l’incontro fatale.
Atahualpa non scambia i nuovi venuti per divinità in viaggio: capisce immediatamente che sono avidi e pericolosi, ma conta di eliminarli facilmente – alla prima occasione favorevole se ne sbarazzerà, risparmiando soltanto chi può svelargli i segreti del metallo sconosciuto, il ferro.
L’Inca è un uomo altero, calcolatore, spietato, ma anche affascinante e di grande ingegno se dobbiamo prestar fede alle descrizioni ammirate che ne faranno in seguito gli spagnoli: “Atahualpa era un uomo di una trentina d’anni, di bell’aspetto, anche se un po’ tarchiato, e di modi raffinati. Aveva il volto grande, dai lineamenti ben modellati e fieri, gli occhi iniettati di sangue. Parlava con molta gravità, come si addice a un grande sovrano” (Xerez) e Cieza de Leòn aggiunge: “Gli spagnoli dicevano grandi cose di questo Atahualpa:… egli comprendeva qualcosa della loro lingua, poneva mirabili domande, e faceva osservazioni intelligenti, talvolta argute”.
Com’è possibile allora che un sovrano perspicace e tutt’altro che ingenuo si faccia giocare come un bambino nella sua Cajamarca da una masnada di predoni, consentendo loro di acquartierarsi in città, dando tempo e modo a Pizarro di tendergli un’imboscata per presentarsi infine al cospetto degli spagnoli circondato da una folla di dignitari disarmati?
Tutto ciò appare assurdo, così come meraviglia la rapidissima disintegrazione di un impero che, a sua volta, era stato edificato in pochi decenni dai montanari quechua. Per dare una risposta al secondo quesito si pone generalmente l’accento sulle divisioni interne alla società incaica prodotte dall’aspra guerra civile (all’epoca non ancora terminata) e sul grande divario tecnologico fra i contendenti.
Per quanto ben organizzato e pittoresco, quello peruviano era un esercito della prima età del bronzo, che non poteva competere con i migliori combattenti forgiati dalle guerre europee di inizio ‘500: i coscritti erano equipaggiati a spese dello stato, ma indossavano caschi di legno e corsetti di cotone, mentre le armi erano spesso di pietra e i grandi scudi lignei non resistevano ai colpi di spada.
L’artiglieria, se così possiamo chiamarla, si serviva di frombole, mentre rari e poco efficaci erano gli archi. Gli ufficiali e le truppe scelte del Cuzco avevano protezioni metalliche e uniformi sovente sfarzose, ma gli strumenti d’offesa maggiormente apprezzati erano mazze bronzee a punta di stella, asce di rame e corte aste simili ad alabarde – l’armata era insomma paragonabile a quella appiedata del Medio Regno egizio, di cui gli Hyksos ebbero facilmente ragione.
L’argomento non è tuttavia risolutivo: le operazioni furono condotte in alta montagna, e come ben sa qualsiasi viaggiatore moderno l’adattamento dei nativi alla carenza di ossigeno assicura loro un inestimabile vantaggio in termini di prestazioni fisiche su chi non è avvezzo a quelle condizioni estreme.
Inoltre qualsiasi tratto del Camino Real poteva rivelarsi per i conquistadores una trappola mortale: la prova ci viene offerta dalle imprese successive dell’Inca Manco e dell’abile generale Quizo Yupanqui, capaci entrambi di sopraffare nutriti distaccamenti spagnoli, annientandoli nelle gole.
Nel corpo a corpo gli europei erano comunque favoriti – e nettamente – ma le tenaci e disciplinate schiere peruviane avrebbero potuto sommergerli, se guidate con discernimento e maestria. E’ insomma verosimile che, perlomeno nell’immediato, con un Huayna Capac o un Tupac Yupanqui (il Napoleone delle Americhe) al comando gli Incas sarebbero riusciti a battere gli invasori, anche se il paragone con lo scontro di Isandlwana non regge, sia perché gli Zulu erano assai più prestanti dei guerrieri incaici che per il fatto che i fantaccini britannici di fine ‘800 erano meglio armati ma assai meno protetti dei fanti corazzati al seguito di Pizarro e – soprattutto – non erano addestrati al combattimento all’arma bianca.
Tuttavia dopo l’eccidio di Cajamarca il temuto esercito imperiale si volatilizza senza sferrare un contrattacco e le forze restanti, divise in tre corpi, non oppongono una resistenza degna di questo nome: il miglior generale dell’Inca – Chalcuchima – si consegna senza combattere ai nemici, Quisquis si ritira da Cuzco (dove in pochi simpatizzano per lui) dopo qualche scaramuccia, Rumiñavi impegna con scarso successo gli invasori in una battaglia campale ai piedi del Chimborazo.
In verità la perdita dell’Inca, che nel frattempo è stato assassinato dagli europei, decide le sorti della guerra e di un impero che rassomiglia a un gigantesco alveare (o formicaio): la società peruviana è piramidale ed ogni decisione spetta all’imperatore, cui la nobiltà è sottomessa al pari del popolo.
Nell’impero socialista degli Incas (titolo di un articolo scritto da Bruno Tacconi per Storia illustrata negli anni ‘70) non c’è spazio per l’iniziativa personale né per la proprietà privata: tutto è rigorosamente pianificato, e ho visto con i miei occhi a Raqchi gli spaziosi silos in cui, negli anni di abbondanza, veniva ammassato il surplus di derrate che sarebbe stato distribuito al popolo in quelli di carestia. Il sistema funziona a meraviglia finché la catena di comando è salda, ma si dimostra incapace di reggere all’imprevisto di un’incursione “aliena”.
Resta però senza risposta la domanda che ci siamo posti all’inizio: per quale motivo Atahualpa facilitò – ovviamente senza volerlo – la conquista spagnola?
(La seconda parte verrà pubblicata sabato 13 febbraio)