Vissuto tra il XIV° e il XIII° secolo a. C. Ramses II è oggidì, assieme a Tutankhamon (quest’ultimo per meriti… archeologici), il più noto tra i faraoni egizi. Del grand’uomo aveva il physique du rôle: altissimo per l’epoca (più di un metro e 80), si segnalava – al pari del biblico Re Davide – per i capelli rossi e visse fino a novant’anni. Inoltre, a differenza degli altri celebri condottieri dell’antichità, lui è “ancora fra noi”: il suo volto mummificato dal grande naso aquilino squadra dall’alto in basso i visitatori che, intimiditi, gli rendono omaggio al Museo del Cairo.
Quest’uomo senz’altro eccezionale fu un grande costruttore e un abile diplomatico, ma decise di passare alla Storia come invincibile comandante – e grazie a qualche forzatura ci riuscì, visto che il “trionfo” da lui ottenuto a Qadesh rivaleggia per fama con quelli di Alessandro, Annibale e Cesare. Suo il regno, sua la potenza… sua, forse, l’invenzione della propaganda. Nell’estate del 1288 a.C. un esercito egizio di 20 mila uomini attraversa il fiume Oronte diretto alla cittadella di Qadesh, in mano ai rivali ittiti. Nell’approssimativa ma popolarissima biografia romanzata del sovrano Christian Jacq descrive costoro come “antenati dei turchi”: nulla di più errato, visto che gli avversari del faraone erano indoeuropei che in Anatolia avevano edificato un impero con capitale Hattusas (avente con ogni probabilità solidi legami con la civiltà troiana).
I nemici sono in superiorità numerica e tendono un’imboscata agli egiziani, rischiando di annientarli: quasi tre mila carri pesanti anatolici si gettano nella mischia, ma a quel punto prende avvio il regale racconto: “Trovai coraggioso il mio cuore; divenni come Montu, lanciai frecce a destra, facevo prigionieri a sinistra: ero come Seth nella sua ora… E nessuno dei guerrieri che montavano i duemilacinquecento carri trovò la forza d’animo d’opporsi a me ed io li feci cadere nell’acqua come cadono i coccodrilli… feci strage tra loro a mio piacere.” L’imprevedibile, stupefacente vittoria di un uomo solo, o piuttosto di un superuomo: questo ci narrano il Poema di Qadesh e le iscrizioni all’interno dei palazzi di Karnak e Luxor, che Ramses volle erigere a propria imperitura gloria. In verità i geroglifici aggiungono dell’altro: “Con me non c’è principe né auriga, / Non c’è soldato né ufficiale. / Il mio esercito mi ha abbandonato. / La mia cavalleria si è ritirata, / Non si sono fermati a combattere contro il nemico. / Così dice Sua Maestà (trad. E. Bresciani).”
Insomma il faraone ha sconfitto i prepotenti nemici malgrado la viltà dei suoi sudditi, che mal comportandosi hanno contratto con lui un debito inestinguibile… narrazione drammatica e d’impatto, ma tocca chiederci: Ramses ha vinto davvero? La risposta negativa ci viene dalla Storia: la fortezza di Qadesh rimase in mano ittita, anni dopo il faraone sposò la figlia di Hattusili, successore dell’avversario Muwattali. Ancora: conta così tanto il reale esito d’una battaglia che fu un sostanziale pareggio? Per gli storici odierni e gli anatolici d’allora senz’altro sì, per gli egizi del Nuovo Regno e l’appassionato lettore di storie assolutamente no. Ramses fu così abile e spregiudicato da trasformare un insuccesso in un’apoteosi, e per riuscirci sfruttò al meglio il monopolio dell’informazione.
Altri, prima e dopo di lui, “abbellirono” le loro azioni (Senofonte accentuò il proprio ruolo nell’Anabasi, Cesare glissò su alcune stragi commesse in Gallia ecc.), ma pochi, se non nessuno – perlomeno fino all’avvento dei social – furono capaci come Ramses di reinventarle. I soli testimoni che avrebbero potuto in qualche modo “sbugiardarlo” (o ridimensionarne sommessamente le vanterie) erano stati da lui previamente accusati di codardia: come prestar fede a soldati che non si erano “fermati a combattere contro il nemico” lasciando solo il faraone? Il c.d. “bollettino di Qadesh”, inciso su tutti i monumenti innalzati dal sovrano, assurse per gli egiziani ad unica, incontrovertibile verità storica – e il fatto che ancor oggi si parli di quell’antichissima battaglia (per nulla decisiva) seguendo la falsariga di Ramses II attesta che il titolo di “Grande” non fu davvero usurpato.
Non paragonabile, come uomo d’armi, a Thutmosis III il figlio di Seti ne eclissò la fama, plagiando con la propria narrazione sudditi e posterità: non è forse esagerato considerarlo l’inventore di psyops (cioè delle operazioni psicologiche) sempreché si ammetta – come fa lo scrivente – che l’obiettivo del condizionamento possa indifferentemente coincidere con un gruppo ostile o con quello di cui si fa parte e che si vuole orientare in una direzione prefissata. Mettiamola così: se i primi utilizzatori delle psyops per uso esterno furono gli assiri, Ramses II può essere ritenuto il geniale precursore delle moderne tecniche di manipolazione mediatica dell’opinione pubblica.