Il candidato democratico Franklin Delano Roosevelt, durante la sua campagna elettorale, non aveva granché deviato dal comune sentire proprio della comunità accademica: alcuni suoi discorsi sulla crisi erano stati basati sulla necessità di sacrifici – il Governo costa troppo – come se occorresse mondare il Paese dagli eccessi del passato recente. Tuttavia, era apparsa palpabile una certa distanza rispetto alla filosofia del suo predecessore, Herbert Hoover.
Non erano mancate profusioni di impegni all’approntamento di forme di aiuto, appelli a vincere gli egoismi e suggestioni tese ad instillare un solido senso di fiducia. L’obiettivo del presidente neoeletto era riconquistare le masse – ormai disperate – al ‘vecchio ordine’ capitalista, dimostrando che esso era capace di risollevarsi e trasformarsi per mezzo di riforme progressiste. (Sullo sfondo, facevano capolino le minacce del Comunismo e del Fascismo). L’ottica di Roosevelt era quella del ‘concerto di interessi’, la collaborazione dei poteri pubblici con l’industria e con l’agricoltura.
Quando Roosevelt si installò alla presidenza, il 3 marzo 1933, trentadue stati avevano registrato la chiusura dell’intero settore bancario, sei stati ne avevano visto chiudere la maggior parte, e dieci stati avevano dovuto imporre restrizioni al ritiro dei depositi. Facendo ricorso a poteri emergenziali, Roosevelt proclamò la sospensione delle attività bancarie. Le banche non poterono riaprire finché le relative condizioni non lo permisero. In numerosi casi, soprattutto riguardanti i piccoli istituti, non riaprirono affatto. Le difficoltà del settore finanziario avrebbero pesato ancora a lungo sugli sforzi rivolti alla ripresa.
Il 9 marzo il presidente fece approvare dal Congresso l’Emergency banking act. Con esso vennero autorizzati nuovi sostegni alle banche contro garanzie – che andarono però a vantaggio di quelle meglio provviste di riserve – e si istituirono controlli sui movimenti di oro, sganciandone contestualmente la base dal dollaro. Il giorno seguente, Roosevelt fece decurtare le retribuzioni dei dipendente pubblici e le pensioni degli ex-combattenti, per una lesina di 500 milioni di $. (Non proprio una elevatissima prova di ‘progressismo’). Il 12 marzo, così come aveva fatto durante il suo discorso inaugurale, il presidente si rivolse alla nazione comunicando che la crisi era alle spalle ed esortando a mettere da parte la paura. (Primo dei ‘discorsi del caminetto’).
In realtà, la strada era ancora lunga. Una volta insediato, il neo presidente istituì un comitato di esperti (Brain Trust). I primi provvedimenti furono più improntati a teorie filosofiche piuttosto che economiche. Parevano maggiormente mirati a fornire sollievo, piuttosto che a un’idea di ‘vera ripresa’. Il clima di allora era impregnato della distanza fra politici ed economisti e, come si vedrà, una teoria ‘scientifica’ della depressione doveva ancora farsi strada. (Dopo che Roosevelt ebbe incontrato John Maynard Keynes, disse che l’economista britannico parlava come un matematico).
Il ‘Nuovo corso’ che caratterizzò la presidenza di Roosevelt, rimasto vago sia in campagna elettorale che al suo debutto, prese forma e consistenza gradualmente. Traspariva nelle intenzioni una certa propensione verso un ‘controllo’ – da parte del livello federale di governo – degli oligopoli privati. Forse avvenne inconsapevolmente rispetto alle intenzioni dei loro promotori, comunque gli atti che avrebbero disposto aiuti e impieghi per i disoccupati avrebbero sortito anche un effetto macroeconomico, stimolando la ripresa.
Intanto, Roosevelt abolì la vigente proibizione delle bevande alcoliche e ne ricavò i copiosi introiti di una tassa, il cui apporto contribuì al pareggio di bilancio. Finalmente costretta ad affrontare la piaga della deflazione, l’amministrazione si risolse – era l’aprile 1933 – ad abbandonare la base aurea. Il dollaro avrebbe avuto da allora un valore ‘in sé’, indipendente dall’oro. Furono sospesi i pagamenti in oro da parte delle banche e venne proibita l’esportazione di oro. Fu inoltre posto divieto alla detenzione dell’oro da parte dei privati, che venne permutato con contante da parte dal Tesoro.
Quando poi, in autunno, il Tesoro volle offrire un prezzo più alto per l’oro, i privati lo avevano già consegnato. Il tentativo di dare un incentivo alla spesa, ne risultò frustrato. In definitiva, si puntava ad un aumento della circolazione monetaria. Ma i prezzi non vollero saperne, almeno per il momento, di rialzarsi. In un persistente clima di deflazione, la svalutazione del dollaro non costituiva uno sforzo sufficiente. Dati poi il diffuso indirizzo protezionista e il vistoso calo dei traffici internazionali, il canale delle esportazioni non poteva supplire alla carenza di domanda interna.
Il settore dell’agricoltura, in particolare, era da anni alle prese con una dinamica dei prezzi penalizzante. Da qui venne una novità, l’assestamento del colpo più pesante inflitto all’ortodossia economica, laddove essa predicava la concorrenza e il libero mercato. Nacque la Agricultural adjustment administration. A partire da allora, sarebbe stata la politica a fissare i prezzi o i profitti minimi per una serie di derrate alimentari. Si giunse persino all’incoraggiamento di limitazioni della produzione. I produttori non dovevano più semplicemente adattarsi a prezzi sui quali non potevano minimamente influire. Con il Farm credit administration vennero aperte sostanziose linee di credito all’agricoltura. Così, si arrivò alla copertura di circa il 20% delle ipoteche in essere.
Si ringrazia l’amico Paolo Ducoli per i consigli – tratti da una sua tesi – sull’argomento e l’amico Roberto Busiello per gli spunti emersi durante le discussioni sulla crisi del ’29.
(La terza parte verrà pubblicata giovedì 25 febbraio)