La cittadina campana di S. Maria Capua Vetere, a due passi da Caserta, è assurta di recente ai disonori della cronaca per una turpe vicenda di pestaggi in carcere commessi ai danni di detenuti da sedicenti “tutori dell’ordine” che si erano convinti di essere legibus soluti… forse perché qualcuno glielo aveva lasciato credere. Una condotta vergognosa soprattutto perché – evidentemente – premeditata, ma che purtroppo non rappresenta un unicum nella storia repubblicana, costellata da numerosi episodi in cui la forza pubblica si è accanita con brutale violenza su quel Popolo che la Costituzione le imporrebbe di proteggere: tutti ricordano la “macelleria messicana” di Genova 2001, pochi i tragici, ma lontani (nel tempo) fatti di Reggio Emilia cui è stata dedicata una bella e struggente canzone.
Tocca chiedersi se questa furia che si dispiega a intermittenza (e di rado fa notizia) sia “cieca” oppure aizzata da personaggi che, stando in alto, ci vedono benissimo, ma non è questo il tema del breve pezzo che propongo al lettore. Un paio di settimane fa a S. Maria Capua Vetere ci sono andato, e non per condurre un’inchiesta giornalistica: il carcere l’ho visto di sfuggita da fuori, ma ad attrarre la mia attenzione sono stati edifici risalenti a epoche ben più remote del secondo dopoguerra.
Va anzitutto premesso che di Capue oggi ce ne sono due: quella Nuova, medievale, in riva al Volturno e quella Vecchia (Vetere deriva dal latino vetus, che significa appunto “vecchio”), di origine assai più antica dell’altra e purtuttavia (ri)sviluppatasi in tempi recenti: in realtà nuovo e vecchio si susseguono senza soluzione di continuità nell’esteso conglomerato urbano che accorpa numerosi comuni, separati – si fa per dire – da incerti confini amministrativi.
La Capua “vecchia” alterna strade dal fondo sconnesso, altre chiuse a tempo indeterminato e – nel cuore dell’abitato – vie pavimentate con eleganti lastroni di pietra lavica; regala scorci da cartolina nella semicircolare piazza Bovio, su cui si affacciano il variopinto liceo Nevio e – probabilmente non a caso – il teatro comunale; non manca di stupire il turista che all’improvviso si imbatte in una chiesa ottocentesca che ingloba lateralmente quelle che sembrano due palazzine d’abitazione.
Merita senz’altro una visita lo sfarzoso duomo tardo barocco, ma il sospetto che questa cittadina abbastanza ben tenuta offra qualcosa in più di quel che a prima vista appare ti coglie mentre cammini sul lungo rettilineo che porta in centro e a un tratto si interseca con un’arteria che scorre perpendicolarmente al primo: non saranno mica il cardo e il decumano?, ti chiedi, e ti rispondi che stai ripercorrendo cammini di venti secoli fa.
La romanità di Capua si rivela infine nello spettacolare Anfiteatro Campano, tra i meglio conservati sul territorio nazionale. Di dimensioni notevoli poteva senz’altro contenere più di diecimila spettatori, ma oggi – o perlomeno il giorno in cui l’ho visitato – è piacevolmente deserto, e sono proprio quest’assenza, il silenzio insidiato soltanto dagli scatti delle lucertole fra i sassi a rendere la visita un’esperienza quasi mistica. Mi avevano detto che entrando in questi corridoi si prova una forte emozione ed io, osservando l’arena, trasalisco al pensiero che fu calcata da Spartaco, eroe della libertà la cui memoria è giunta fino a noi.
Annesso al monumento c’è un piccolo, ma interessante museo dei gladiatori: vi si ritrova qualche reperto oltre a ricostruzioni moderne degli equipaggiamenti indossati dalle diverse tipologie di combattenti. Spartaco era trace di nascita e come tale combatteva: un atleta robusto ma agile, provvisto di scudo rettangolare, elmo e spada ricurva, che affidava le sue speranze di vittoria alla velocità dei movimenti e alla destrezza.
Tramandano fosse eccezionalmente bravo nella sua arte: fosse sopravvissuto agli strapazzi dell’arena (la morte in combattimento era un evento piuttosto raro poiché i gladiatori erano “professionisti” su cui si investiva, ma la vita era dura e – non esistendo gli antibiotici – frequenti erano le setticemie post traumatiche) avrebbe potuto aspirare alla liberazione e, finita la carriera, all’incarico di allenatore.
Non per bramosia di fama ma per innato – e forse inconsapevole – senso di giustizia fece una scelta diversa: stanco di duelli senza senso persuase i suoi compagni di sventura a evadere clamorosamente dalla schola, si improvvisò capo militare di prim’ordine e anziché singoli schiavi per spettacoli cruenti si mise ad addestrare un esercito di uomini e donne già liberi in cuor loro.
Finì male, come sappiamo, con migliaia di ribelli appesi alle croci, eppure l’esempio dell’indomito trace ci rammenta che il potere può essere sfidato e che la sua granitica saldezza è spesso mera apparenza. Furono il caso e la metodicità di Crasso a decretare la sconfitta di Spartaco, che però “è diventata la vittoria dell’uomo” (con questa frase inizia lo splendido film di Kubrick, che anche a Kirk Douglas ha donato l’immortalità).
Sotto le pietre della Capua romana si nasconde però un’altra città, stavolta greca, che sino alla fine del III secolo a.C. rivaleggiò con l’Urbe per numero di abitanti e importanza economica. Circa centocinquanta anni prima dello scoppio della guerra servile un esercito vittorioso, ma sfinito si accampa nei pressi di Capua (216 a.C.). A guidarlo è uno dei personaggi più affascinanti della storia militare universale: il sommo Annibale Barca, colui che combattendo sempre (finora) in inferiorità numerica ha mortificato l’orgoglio romano, infliggendo alla Res publica tremende disfatte.
Quella di Canne sembra decisiva, ma contro l’opinione di Maarbale il duce punico non si azzarda ad assalire Roma, di cui tra l’altro non pianifica la distruzione. Sa che l’armata è malridotta, gli uomini provati – soprattutto è consapevole che l’unica maniera per piegare il nemico e costringerlo alla resa è assicurarsi l’appoggio e le risorse delle ricche comunità del Meridione. Di tutte le colonie elleniche in territorio italico Capua è la più importante e florida: attrarla senza combattere nell’orbita cartaginese è il capolavoro diplomatico del Barca.
Annibale e i suoi guerrieri sverneranno lì: gli “ozi capuani” rimproverati dagli storici al condottiero sono in realtà un necessario periodo di riposo in vista di nuove e impegnative campagne. Come avrà trascorso il nostro quei lunghi mesi invernali? Non certo banchettando da mane a sera: “cibi potionisque desiderio naturali, non voluptate modus finitus” dice di lui Tito Livio. Più facile immaginarlo mentre riflette, magari passeggiando da solo, e architetta nuovi piani: il famoso busto conservato al museo di Napoli trasmette un’impressione di determinazione e forza d’animo che traspaiono dall’espressività dello sguardo pensoso.
Roma si vendicherà spietatamente dell’ospitalità capuana, e il tentativo di Annibale di salvare i suoi benefattori presentandosi finalmente alle porte dell’Urbe (Hannibal ad portas!) non andrà a buon fine: l’antica e prospera polis sarà distrutta dalle legioni, la popolazione schiavizzata e dispersa – ma Capua comincerà presto una seconda vita, più appartata e modesta, sotto il giogo romano.
Due città ieri, due oggi… eppure mentre mi siedo a un tavolino al sole con vista sull’anfiteatro aspettando una Tennent’s avverto la presenza nella folla di due grandi ombre capaci di opporsi per un momento alla corrente inarrestabile della Storia, e mi ripeto che solo la conoscenza se non il culto del passato può costituire un efficace antidoto contro la subdola ideologia dell’”eterno presente” su cui il totalitarismo sovranazionale fonda il proprio imperio sulle genti.
Ma queste sono mie pigre elucubrazioni, che lasciano in fondo il tempo che trovano: concludo suggerendo di visitare queste contrade, pur poco attrezzate per il turismo “di nicchia” (i prezzi dei pochi bed&breakfast non sono inferiori a quelli della “nemica” Roma!), senza scordarsi che nella vicina Caserta il borgo romanico di Casertavecchia trasmette sensazioni paragonabili a quelle regalate dalla celeberrima Reggia.