Ci siamo lasciati con due interrogativi in sospeso, il primo dei quali riguarda lo scontro decisivo in terra d’Africa, avvenuto in realtà non a Zama bensì a Naraggara: davvero in quella circostanza Publio Cornelio Scipione mostrò la sua superiorità di generale su un Annibale ormai imbolsito?
Rileggendo attentamente Polibio, lo storico bolognese Giovanni Brizzi – ispiratore di Paolo Rumiz oltre che del romanziere tedesco Gisbert Haefs – perviene a conclusioni quasi opposte. Per diventare un fulmine di guerra il patrizio della gens Cornelia ha studiato molto: nello specifico le tattiche del grande avversario, che egli però non copia pedissequamente. La manovra avvolgente, costata alle legioni la carneficina di Canne, può essere infatti ulteriormente perfezionata: la riorganizzazione in agili coorti, ideata e attuata da Scipione, assicura all’esercito un’accresciuta flessibilità d’impiego consentendogli, se ben guidato, di cingere letalmente i fianchi dell’avversario senza bisogno dell’intervento di reparti montati.
A fare le spese dell’innovativa tecnica di combattimento sono i comandanti punici in Iberia, che colti di sorpresa vengono pesantemente battuti – tutti, compreso il sagace e prudente Asdrubale Barca, che a Baecula perlomeno riesce a sganciarsi. Sottratta la Spagna al nemico Scipione passa in Africa con truppe oramai rodate, e ai Campi Magni fa letteralmente a pezzi l’armata di Asdrubale di Giscone: è a questo punto che ad Annibale tocca rientrare in scena.
La sfida finale è impari: il Barcide dispone di un esercito più numeroso, ma qualitativamente assai inferiore e pressoché sfornito di cavalleria. C’è chi giudica un segno di debolezza da parte di Annibale la richiesta, accolta, di un colloquio con il romano, ma l’opinione mi sembra errata: il “vecchio” duce – che non ha più di 45 anni – avverte l’esigenza di capire chi ha di fronte, e come costui ragiona. Dal dialogo, trascritto da Polibio, traspaiono la saggezza e il disincanto del maturo comandante africano, ma anche l’orgoglio, la fierezza e l’inflessibilità del suo più giovane competitore.
Nell’eccesso di sicurezza e nella (ipotizzabile) poca elasticità di Scipione Annibale intravede una chance: ha compreso che il nemico progetta una “replica” dei Campi Magni. Resterà però deluso: a “Zama” il cartaginese schiera in prima linea i mercenari galli, coraggiosi ma indisciplinati (il povero fratello Asdrubale ne sa qualcosa), e alle loro spalle, come rincalzo, le reclute cartaginesi che il Gisconio ha arruolato per lui. Insieme potranno al più rallentare i romani. Duecento (!) metri più indietro dispone l’unico contingente su cui fa reale affidamento, formato dai veterani d’Italia: chi li definisce “riserva” fa torto al suo genio e implicitamente lo accusa di inettitudine, poiché solo un novellino potrebbe figurarsi Scipione ricacciato in mare dai coscritti.
In queste condizioni la manovra aggirante non è effettuabile, non subito almeno: è allora Annibale a prendere l’iniziativa con il diversivo della carica degli elefanti. Alzeranno soltanto nuvole di polvere, ma è ciò che lui vuole, e propizieranno la fuga della debole cavalleria cartaginese, di cui quella romana guidata da Lelio e Massinissa si lancia impetuosamente all’inseguimento.
Ora sul campo rimangono i soli fanti e si accende furibonda la mischia: dopo aspra lotta i legionari costringono la prima e la seconda fila dei nemici a ripiegare, ma ci penserà il Barcide – non senza qualche affanno – a rischierare i fuggitivi ai lati della sua c.d. riserva. Ebbri di sangue gli hastati vorrebbero scagliarsi contro la terza linea, ma preoccupato Scipione li blocca: sono stanchi e molti di loro hanno riportato ferite, la corsa prosciugherebbe le energie residue.
Per cercare di eguagliare l’estensione dello schieramento punico, che dapprincipio si illudeva di aggirare, il comandante romano sfilaccia al massimo il proprio, mandando in campo la riserva strategica dei triarii, ma il centro rimane debole e presidiato da soldati esausti – ed è proprio al centro che Annibale, ribaltando le precedenti concezioni tattiche, scatena a sorpresa l’attacco che spera risolutivo. La mossa è strabiliante, sed vitam regit fortuna: serrati i ranghi, i vituperati reduci di Canne riescono a resistere assai più a lungo del prevedibile e quando sono sul punto di cedere vengono salvati dal ritorno della cavalleria, che assale i cartaginesi alle spalle e ne fa strage.
E’ finita, ma il figlio di Amilcare non ha perduto la lucidità assieme alla battaglia: impone il silenzio a quanti, fra i concittadini, seguitano a cianciare di resistenza a oltranza e poi, col favore del popolo (ma non dell’élite mercantile, che l’ha sempre ostacolato), assume la carica di supremo magistrato per lanciare un efficace programma di riforme politico-economiche che solo l’odio dei vincitori – e dell’oligarchia – gli impedirà di portare a termine. Dovrà scappare nottetempo dalla sua Cartagine, ma neppure da esule avrà mai pace: la sete di vendetta dei romani, lanciati all’inseguimento per mare e per terra, si placherà soltanto con la sua morte.
Viene in mente la vicenda di Julian Assange, vittima oggi di una altrettanto spietata persecuzione da parte di sedicenti “buoni e giusti”, ma per intendere le ragioni di un astio così duraturo (su cui lo stesso Annibale, ultrasessantenne e prossimo a bere una coppa di veleno, ironizzerà amaramente: “Libereremo il popolo romano dal lungo affanno, dal momento che non hanno nemmeno la pazienza di attendere la morte di un vecchio”) tocca scavare un po’ in profondità, tornando indietro al quindicennio trascorso dal condottiero punico nel sud della penisola italiana.
A questa disamina sarà dedicata l’ultima parte del mio breve scritto, anche se – lo confesso – avrei preferito presentarvi lo statista (paragonabile a Cesare per lungimiranza e intenti), l’imprenditore agricolo all’avanguardia, il consigliere inascoltato e il fondatore di città.
Sarà per un’altra volta.