Nell’anno della sua ascesa al trono – il 14 d.C. – Claudio Tiberio Nerone è un uomo già piuttosto anziano, nonché un “sopravvissuto”. Augusto non ha mai considerato il figliastro una prima scelta per la successione, preferendogli via via Marcello (forse il puer cantato da Virgilio), l’altro figlio di Livia Druso, infine Gaio e Lucio Cesare. Indifferente ai voleri del principe il destino se li è portati via tutti in giovane età, e lui ha dovuto ripiegare senza entusiasmo su Tiberio, che stima ma non ama affatto: troppo diversi i due caratteri, le rispettive visioni del mondo.
Va detto che il nuovo imperatore piace poco anche ai sudditi, che gli affibbieranno soprannomi irriverenti: causa la propensione – assai poco chic – a strabere vino puro sarà ribattezzato Caldio Biberio Merone, mentre il lungo ritiro a Capri gli frutterà l’epiteto di “nesiarca” (dal greco νῆσος, che significa per l’appunto isola). Anche dopo morto verrà insolentito, con il minaccioso gioco di parole Tiberius in Tiberim!, che resterà tuttavia un ingiurioso auspicio.
Quali le ragioni di tutto questo malanimo nei confronti di un uomo che, dopo un’eccellente carriera militare, si rivelerà un amministratore coscienzioso e capace? Gli storici antichi, generalmente ostili ma dubbiosi se collocarlo o meno nella categoria dei “mostri” (in compagnia di Caligola, Nerone e Domiziano), gli imputano innumerevoli vizi ma insistono soprattutto sulla tendenza alla dissimulazione: dalle loro descrizioni emerge un personaggio scaltro e insincero, mai diretto, incline all’inganno e alle macchinazioni. L’obiettività di giudizio sembra velata da un’antipatia preconcetta, che non tiene in nessun conto taluni episodi riportati per esempio da Svetonio – su cui torneremo – e trova “giustificazione” in sospetti sovente gratuiti e nella perfetta gestione, da parte del princeps, dell’eliminazione dell’infido e ambizioso Seiano.
Ma chi era davvero Tiberio? Se osserviamo i suoi ritratti marmorei avvertiamo nello sguardo un che di malinconico e sfuggente e la fisionomia non si imprime nella memoria come quella di Cesare, Ottaviano o Caligola, anche se la descrizione svetoniana non è malevola: “Era di corporatura massiccia e robusta, e di statura superiore alla media; largo di spalle e di petto, aveva anche le altre membra ben fatte e proporzionate fino ai piedi (…). Aveva un colorito chiaro, con i capelli che gli scendevano dietro la testa piuttosto in basso, tanto da coprirgli anche la nuca; il viso era leggiadro, ma su di esso comparivano all’improvviso parecchi piccoli foruncoli, e gli occhi erano eccessivamente grandi e, cosa notevole, vedevano anche al buio e di notte, sebbene per breve tempo e solo quando si aprivano subito dopo il sonno (Tiberio, LXVIII)”. Subito dopo lo storico aggiunge un particolare che getta una luce sull’indole del protagonista e ci consente di meglio inquadrarlo: “Camminava con il collo rigido e ripiegato all’indietro e con il volto quasi accigliato, per lo più in silenzio (…)”.
Teniamo a mente un aspetto fondamentale: oggi come duemila anni fa il governante è un personaggio pubblico, che deve affascinare le moltitudini, ammaliarle, mostrar loro una vicinanza (anche “corporea”) che nei fatti non c’è. Il dialogo con le masse è fondamentale e in quest’arte eccelsero Giulio Cesare e il popolarissimo Nerone, mentre Augusto, più freddo e schivo, divisò di affidare ad eccelsi professionisti la sua propaganda: l’ipocrita per antonomasia preferisce invece comparire il meno possibile e non appena gli si presenta l’occasione si eclissa disgustato dalla vita pubblica.
Si rifugia a Capri, com’è noto, ma non meno clamorosa era stata la “fuga” a Rodi decenni prima, regnante Augusto. La sua retorica è misurata, aliena dai patetismi e dalla teatralità (gemiti, pianti, stracciarsi di vesti ecc.) che assomigliava il politico romano medio – e i suoi epigoni novecenteschi – a un consumato istrione. Senato e plebe non perdonano a Tiberio questa lontananza, questa mancanza di empatia ostentata che attribuiscono all’altezzosità tipica della gens Claudia o, più malignamente, al disgusto per se stesso, mentre è probabilmente indice di propensione alla solitudine e motivata sfiducia negli esseri umani.
Tiberio è il primogenito di un uomo che si oppose a Giulio Cesare e poi ad Augusto, la cui moglie – Livia – s’innamorò delle fortune del biondo futuro primo imperatore. Ritroviamo il figliastro nel corteo che si dispiega lungo una delle facce dell’Ara pacis: è un comprimario, e accanto a lui sfila il fratello minore Druso. Comanderanno le truppe in Germania, entrambi con successo: ma mentre Druso si segnalerà per temerario coraggio Tiberio si farà apprezzare per la prudenza dimostrata in ogni occasione.
E’ un bravo comandante, di cui tutti si fidano – ma che non suscita passioni. Batte più volte i germani, ma gli allori – oltre che ad Augusto, che si arroga i trionfi – andranno al fratello minore, più espansivo ed estroverso. Ottaviano mostra chiaramente la sua predilezione per Druso, ma il presunto dissimulatore non ne fa – a quanto pare – una malattia: seguita a servire con onore, e quando il fratello rimane ferito accorre al suo capezzale, coprendo centinaia di chilometri in poche giornate.
Druso muore dopo una lunga agonia (14 settembre del 9 a.C.), e l’uomo che, somigliasse al ritratto che ne fanno, avrebbe dovuto invidiarlo e detestarlo gli resta accanto fino all’ultimo e poi “ne accompagnò la salma fino a Roma, precedendola a piedi per tutto il percorso (Tiberio, VIII).” Ha un cuore arido chi si comporta in questa maniera? Può darsi l’affetto fraterno sia simulato, ma la simulazione richiede uno scopo e quanto leggiamo non suffraga l’illazione secondo cui Tiberio aspirasse al supremo potere.
C’è un altro accadimento, registrato da Svetonio, che non lascia indifferenti. Augusto costringe Tiberio a ripudiare la moglie Vipsania Agrippina per sposare sua figlia Giulia, dissoluta e ribelle. “Quanto ad Agrippina, soffrì dopo il divorzio per averla dovuta allontanare, e l’unica volta in cui la incontrò per caso, la seguì con uno sguardo tanto felice e commosso, che si dispose ella non venisse più in sua presenza (Tiberio, VII)”.
In questa scena, appena tratteggiata, il “crudele” Tiberio fa mostra di un’umanità che sarebbe vano ricercare in tutte le pagine dedicate agli altri imperatori della casa Giulio Claudia, da Cesare in poi. Questo passaggio, letto in una versione al ginnasio, mi convertì alla causa di Tiberio, eletto allora a mio imperatore favorito.
La seconda parte verrà pubblicata sabato 16 gennaio.