Una società violenta e diseguale produce folle cenciose di bruti, la cui rabbia repressa erompe quando la sorveglianza del potere si allenta. Capita talvolta che a prendere la guida di turbe rumoreggianti sia una figura dotata di carisma – come Dolcino – o addirittura un letterato idealista, capace di dare forma a proteste che resterebbero altrimenti inarticolate, al vago anelito a un ritorno a quell’età dell’oro in cui il servo era trattato da uomo e i diritti consuetudinari venivano rispettati.
Nella stragrande maggioranza dei casi le lagnanze (perché di questo si tratta, più che di rivendicazioni consapevoli) si incentrano sulla rapacità degli esattori regi e su arbitrii commessi dai signori feudali: la critica non è rivolta al sistema in quanto tale, ma a singoli comportamenti percepiti come ingiusti e “devianti” rispetto a una regola. Destinatario delle richieste è il sovrano, cui il popolo minuto si rivolge come a un garante e un patrocinatore delle proprie ragioni: ministri infedeli lo tengono all’oscuro di ciò che accade, ma una volta messo sull’avviso il Re – unto dal Signore – ripristinerà d’imperio l’ordine naturale delle cose.
Anche nei celebri XIII Articoli – redatti da intellettuali vicini al movimento contadino – rinveniamo pretese ragionevoli e in fondo moderate: il ripristino delle proprietà collettive usurpate dai nobili, la terzietà del giudice, l’accesso all’acqua e alle risorse del bosco. Nessun afflato rivoluzionario, insomma: a essere messa in discussione non è l’organizzazione sociale nel suo complesso, bensì il cattivo uso che alcuni appartenenti alle classi dominanti fanno delle loro prerogative. Ci sono delle eccezioni al modello fin qui descritto: nell’Inghilterra di fine ‘300 Wat Tyler e John Ball – un religioso che ricorda – innescano un moto dai tratti rivoluzionari, ma anch’essi si affidano alla benevolenza regia per ottenere l’abolizione della servitù della gleba e del feudalesimo.
L’unico capo di estrazione contadina capace di immaginare un cambiamento è il croato Gubec, ma la ribellione da lui guidata si situa in piena età moderna. In estrema sintesi i contadini, classe oppressa, non acquisirono mai, se non episodicamente, una coscienza rivoluzionaria – e questo spiega perché, in un momento successivo (la fine del ‘700: si pensi alla Vandea e al Regno di Napoli) divennero massa di manovra delle forze reazionarie.
La Storia ci insegna che tutte queste rivolte falliscono e vengono soffocate nel sangue: un esito apparentemente non scontato. Per quanto malaticci e denutriti i contadini del tardo medioevo sono gente tosta, abituata alla fatica e ad adoperare arnesi di metallo che, all’occorrenza, possono convertirsi in armi – taluni, avendo servito nelle milizie locali, sanno maneggiare lancia e spada. Inoltre non hanno nulla da perdere: questo li rende temibili. A Bad Frankenhausen (1525) a fare la differenza saranno i cannoni e la perizia bellica di soldati professionisti, ma nel Trecento le armi da fuoco sono rare e poco efficienti, a decidere le pugne sono la destrezza e il vigore fisico. I nobili mangiano meglio e sono più addestrati, ma il loro vantaggio non è incolmabile, anche perché sono assai meno numerosi degli avversari – e in effetti pochi manieri resistono alla furia dei servi, che nelle fasi iniziali hanno quasi sempre la meglio su chi li sfrutta.
Le monarchie non dispongono di eserciti regolari: allo scoppio di un conflitto fornire soldati è compito dei vassalli, ma la penuria di risorse e le difficoltà di vettovagliamento riducono le dimensioni delle armate, che contano poche migliaia di uomini. L’unico punto di forza di questi eserciti raccogliticci, che non reggerebbero l’urto di una legione romana, è la cavalleria pesante corazzata, formata da nobiluomini allenati a combattere. Esistono soltanto due modi per arrestarne la carica: il ricorso all’arco inglese, in grado di colpire da lontano con dardi che perforano le corazze, e l’impiego in prima linea di picchieri. Questa seconda tattica viene efficacemente rappresentata da Mel Gibson nel film Braveheart (battaglia di Stirling Brig), ma gli esempi storici non mancano: l’uso di lunghe aste appuntite regalò agli araucani del Cile una clamorosa vittoria sulla cavalleria di Almagro, che pure aveva travolto a più riprese i disciplinati eserciti incaici.
Il tiro con l’arco era diffuso in Inghilterra, ma non in Francia, e i ribelli erano privi di lance e soprattutto inesperti del combattimento in formazione – pertanto in campo aperto non riuscirono mai a opporre una resistenza degna di questo nome ai cavalieri pesanti, che penetravano le file avversarie come una lama nel burro. A questo punto il numero preponderante diventava uno svantaggio: lo schieramento si frantumava e i combattenti di prima linea, fuggendo in preda al terrore, si scontravano con quelli che venivano dietro. Caos e panico prendevano il sopravvento: nella calca molti finivano calpestati a morte dai compagni, mentre soltanto la spossatezza fisica poneva fine al massacro a opera dei cavalieri, che letteralmente giocavano con la vita altrui.
Non era questo l’epilogo: alla strage in battaglia seguiva il macello dei sopravvissuti. I capi ricevevano un trattamento “di riguardo”: con l’attivo coinvolgimento dell’autorità religiosa – paladina dello status quo – i leader vengono orrendamente torturati e poi messi a morte coram populo. A Matija Gubec viene posta in capo una corona arroventata: siamo di fronte a una parodia della passione di Cristo che non può che essere voluta.
Il ribelle va punito in maniera esemplare poiché ha osato l’inosabile, contestando la sistemazione data all’universo da un (presunto) Dio assai compiacente nei confronti dell’élite. Guai a chi attenta a potere e privilegio! Il “patrono arcifanatico dei contadini” (Müntzer) diviene allora l’Anticristo, e come tale va trattato – assai peggio di qualsiasi criminale che, in fondo, insidia la proprietà o la vita, non la visione padronale del mondo.
Ribellarsi è giusto, la colpa risiede nel non avere la capacità di andare fino in fondo.