La morte in battaglia di Giuliano muta però drasticamente il quadro della situazione: da quel momento – e soprattutto dalla presa del potere da parte di Gioviano – l’esistenza di Procopio assume i contorni di un incubo. Rubiamo, adattandola, una frase a Giulio Cesare: dopo aver combattuto per la vittoria (e sognato forse l’impero) il nobile cilicio si trovava stavolta costretto a “combattere” per la sua stessa vita.
Che all’inizio del suo breve (e anonimo) regno questo Gioviano abbia crudelmente perseguitato rivali veri e presunti è un fatto acclarato, ma a sorprendere è la reazione di Procopio – un alto funzionario con alle spalle varie campagne militari, non dimentichiamolo! – che più che ritirarsi prudentemente dalla scena pubblica cede letteralmente al panico, rintanandosi nelle sue terre per poi darsi addirittura alla macchia.
L’ironia di Ammiano Marcellino colpisce impietosa: il cugino di Giuliano ci viene presentato mentre supplica un antico commilitone di concedergli asilo e poi nell’atto di aggirarsi furtivo per i vicoli di Costantinopoli, “irriconoscibile per il suo aspetto dimesso e macilento”.
Nel frattempo l’odioso Gioviano è passato a miglior vita e sul trono di Bisanzio siede Valente, un ariano che sin da subito si rende impopolare e sarà in seguito responsabile della rotta di Adrianopoli. Il nostro Procopio continua in incognito a raccogliere informazioni e tesse la sua tela, ma questo improvviso attivismo non inganna lo storico che chiosa, non si sa se impietosito o beffardo: “(…) esaurito da continui travagli, con il pensiero che anche una morte terribile fosse più benigna dei mali che sopportava, gettò il dado e affrontò decisamente tutti i pericoli (XXVI 6,12)”.
Soggetto passivo delle proprie paure, non agit sed agitur. Con promesse, preghiere e denaro sonante Procopio riesce comunque a comprarsi l’effimero sostegno delle truppe, che lo acclamano imperatore. La scena non ha nulla di festoso o regale, tingendosi semmai di grottesco: l’aspirante Augusto si mostra “livido, lo si sarebbe ritenuto evocato dagli inferi” e con indosso un costume teatrale “poiché non si era trovato in nessun luogo un mantello imperiale (XXVI 6,16)”; con la destra sventola un malinconico straccetto purpureo.
Più che una proclamazione sembra una parodia, cui il popolo costantinopolitano assiste indifferente: passi per le vesti inadeguate, ma sono l’atteggiamento timoroso e dimesso di Procopio, la sua evidente insicurezza a suscitare la sfiducia di masse disincantate.
E’ lui stesso in qualche modo – con le sue scorate esitazioni – ad appiccicarsi addosso l’etichetta di “usurpatore”, ad onta del nobile lignaggio e di un’apparenza fisica nient’affatto sgradevole: “Era di bell’aspetto, di alta statura, piuttosto bruno; (ma) camminava con lo sguardo sempre rivolto a terra (XXVI 9,11)” e non rideva mai.
Se ciascuno è fabbro della propria sorte, il pavido Procopio sta forgiando un sicuro fallimento. Malgrado il patetico esordio la lontananza di Valente, impegnato altrove, e l’appoggio prezzolato dei militari regalano al comes qualche incoraggiante successo iniziale: si impadronisce della Tracia, guadagna alla sua causa le prime truppe inviategli contro e riduce in proprio potere la Bitinia.
A differenza dei predecessori – e di chi verrà dopo di lui – non indulge a crudeltà gratuite e non infierisce sui vinti (Ammiano non manca di sottolinearlo, compiacendosene); tenta anche di ingraziarsi la plebe della capitale ostentando affetto paterno nei confronti della figlia ancora bambina del defunto Costanzo, ultima discendente di Costantino il Grande.
L’impressione tuttavia è che egli stia interpretando un ruolo troppo impegnativo per lui, e se ne renda perfettamente conto. Il ritorno di Valente con ingenti forze militari capovolge ben presto la situazione: Procopio muove per affrontare il legittimo imperatore, ma alla vigilia dello scontro alcuni suoi comandanti lo abbandonano e passano al nemico.
Un rigurgito di lealismo? Diciamo che, nell’età del Dominato, la fedeltà di soldati e condottieri è una merce come le altre, che chi paga meglio si aggiudica senza troppi sforzi di retorica. Corruzione, dunque – ma anche la consapevolezza, che si fa largo nelle menti di viri militares pratici e smaliziati, di aver puntato sul cavallo perdente.
Il lettore assiste turbato a un susseguirsi di tradimenti: dopo quello decisivo del generale Gomoario, che gli preclude ogni possibilità di resistenza, Procopio fugge “verso i nascondigli dei boschi e dei monti circostanti” accompagnato da due soli ufficiali, Florenzio e Barchalba.
Ormai ha perduto ogni speranza: è un uomo finito o almeno così lo giudicano i compagni di fuga, che dopo averlo incatenato lo trascinano prigioniero fino all’accampamento di Valente. Non aveva avuto torto Procopio a nascondersi, morto Giuliano, alla vista del mondo – un mondo in cui fedeltà, riconoscenza e onore sono vacue parole.
Ammiano Marcellino chiude il suo racconto con un’istantanea drammatica, che si imprime nel ricordo di chi legge: “Quando ritornò il giorno, fu condotto al campo e presentato silenzioso e con lo sguardo fisso all’imperatore. Fu immediatamente decapitato (XXVI 9,8)”.
Rammento che a quest’essere umano sconfitto, ingannato e attonito mi ripromisi, decenni fa, di dedicare una via di mezzo fra un saggio e un romanzo: terminata l’università avrei per prima cosa visitato i “suoi” luoghi. Non mantenni l’impegno preso – e questo articoletto è una magrissima compensazione.
Mentre finisco di scriverlo, in un afoso pomeriggio di giugno, riecheggia nella mia testa la frase-epitaffio che chiude il capitolo: “Procopio (…) per i segreti aspetti del suo tetro carattere era simile al famoso Crasso, di cui Lucilio e Tullio affermano che rise una volta sola nella vita, ma (e questo è degno di ammirazione) finché visse non versò sangue (XXVI 9,8)”.