Primi mesi dell’anno 6 d.C., settecentocinquantanovesimo ab Urbe condita: nella pianura danubiana Tiberio è intento a preparare l’offensiva contro Maroboduo e i suoi sudditi. Quest’impresa, se condotta felicemente a termine, rappresenterebbe il culmine della sua prestigiosa carriera militare: benché di recente fondazione, il regno marcomanno appare saldo e ben governato; inoltre il suo territorio non è mai stato direttamente soggetto a Roma – si tratterebbe insomma di una nuova, significativa conquista. Il figliastro di Augusto ha ai suoi ordini cinque legioni, altre sopraggiungeranno dalla Germania: è un’armata già imponente, ma il condottiero rispetta il suo avversario e non vuole lasciare perciò nulla al caso. Reclama auxilia, e i reclutatori romani si mettono al lavoro nei territori più prossimi, fra cui l’Illiria. All’interno della provincia si raduna un gran numero di guerrieri provenienti dal litorale dalmato e dal meridione: scoprendosi risoluti e ben armati decidono improvvisamente di rivolgere le armi contro i padroni anziché servirli – e così fanno, massacrando il piccolo distaccamento che li scorta. Si scelgono per capo un certo Batone del popolo dei Desidiati: pare abbia esperienza di combattimento e di comando, anche se, per ammissione dello stesso Abdale, non sappiamo pressoché niente di lui. Lo scoppio subitaneo e inatteso di una rivolta su vasta scala sorprende i romani, che han lo sguardo rivolto altrove, e allo stupore subentra l’angoscia quando essa si estende ai Pannoni, che abitano le odierne Croazia e Slovenia: l’intera Illiria è in armi, la stessa Italia nordorientale è minacciata.
A questo punto, secondo il nostro autore, Tiberio commette il grave errore di non intervenire subito, di tergiversare: si moltiplicano gli ironici riferimenti alla sua “prudenza”. Jason R. Abdale menziona di sfuggita (e un po’ ad pompam) i massimi storici moderni e contemporanei, da Gibbon a Mommsen, ma le sue fonti sono essenzialmente due: Velleio Patercolo e Cassio Dione. Il primo partecipò alla campagna contro gli Illiri in qualità di ufficiale al seguito di Tiberio, ma proprio per questo motivo lo scrittore americano ne diffida: sarebbe sfacciatamente di parte, mentre Cassio Dione – vissuto un paio di secoli dopo – viene giudicato più obiettivo. In realtà le due versioni sostanzialmente collimano, e l’accusa rivolta a Tiberio di attendismo (se non di inerzia) non sta proprio in piedi. Secondo Abdale la “prova a carico” consiste nel fatto che a contrastare per primo i ribelli – con tre legioni – è il legato di Mesia Cecina Severo, che pure si trovava più distante dal teatro dell’insurrezione rispetto al futuro imperatore. Perché allora Tiberio non si muove? Esaminiamo la situazione concreta “sul campo”, tenendo conto che all’epoca non esistevano radio, telefonini né videoconferenze. La Mesia da cui viene richiamato il governatore imperiale è una regione pacificata, che procura fastidi solamente d’inverno, quando il Danubio ghiacciandosi consente il passaggio di incursori daci, volti più che altro al saccheggio. Maroboduo e i suoi disciplinati guerrieri germanici sono invece ritenuti il principale ostacolo all’espansione romana in Occidente, mentre le varie tribù che abitano l’Illiria sono sudditi in passato quasi sempre battuti, e naturalmente privi di organizzazione statale. In più – l’abbiamo già detto – accrescere i domini imperiali arreca lustro imperituro, al contrario sedare una rivolta rientra in quella che potremmo definire “amministrazione”, seppur straordinaria. Ma le preoccupazioni di Tiberio sono anzitutto di ordine pratico: se lasciasse sguarnito il fronte danubiano dopo aver manifestato chiare intenzioni ostili esporrebbe senz’altro la Res publica al rischio di un’invasione marcomanna. A mostrare indecisione e debolezza, divorandosi una ghiotta occasione, è invece proprio Maroboduo, che rassicura l’antagonista: rimarrà all’interno dei suoi confini, non sfiderà la vacillante potenza romana. A posteriori possiamo considerarlo un grave errore di calcolo, anche se non conosciamo la reale consistenza dell’esercito “boemo”, forse sovrastimata (né le effettive intenzioni del sovrano, che presumibilmente auspicava un’impossibile convivenza con l’Impero). E’ solo a questo punto che Tiberio Claudio rivolge la sua attenzione all’Illiria, dopo aver ricevuto notizie fresche dal fronte: Aulo Cecina Severo non è riuscito a domare gli insorti. L’ottimo Abdale si compiace di descrivere il legato come un mezzo inetto che si è lasciato attirare in una trappola dagli astuti Illiri, ma sta di fatto che a prevalere nella battaglia combattuta sulle sponde della Drava sono le legioni, sia pure al prezzo di severe perdite. E’ innegabile tuttavia che mentre le truppe romane escono provate dallo scontro le file dei rivoltosi si ingrossano ogni giorno di più: il numero dei seguaci dei due Batoni (anche i Pannoni ne hanno uno!) viene calcolato dagli storici nell’ordine delle 200 mila unità.
Tiberio invia un’avanguardia agli ordini di un fedelissimo, poi fa il suo ingresso in Illiria. Conosce bene la provincia, per avervi guerreggiato con successo una dozzina di anni prima: sa che è abitata da gente dura, pugnace, che la familiarità con i luoghi induce a sperimentare tecniche di guerriglia. Il figlio di Livia è consapevole che la fretta è pessima consigliera: malgrado gli incitamenti a far presto rivoltigli da Augusto conduce una lenta e meticolosa operazione di riconquista. Città e forti vengono pian piano ripresi dalle armi romane, che nelle campagne usano il pugno di ferro – più per affamare gli insorti e far perdere loro il sostegno popolare che per terrorizzare gratuitamente i contadini. Primavere, estati e autunni si susseguono: quando arriva il freddo invernale i legionari si rinchiudono nei loro castra. Truppe di rinforzo per Tiberio sbarcano sulla costa dalmata: Batone I tenta di annientarle circondandole, ma i comandanti Severo (sempre lui) e Silvano rompono l’accerchiamento e costringono gli Illiri a ritirarsi. Non c’è nulla da fare: gli autoctoni riescono a rallentare la marcia degli invasori, mai a fermarla o a dare scacco al nemico. Il giovanissimo Germanico, spedito da Ottaviano a “spronare” lo zio, rischia di comprometterne la strategia con azioni tanto brillanti e rapide quanto (in qualche occasione) imprudenti, ma Tiberio va avanti per la sua strada: a metà dell’8 d.C. la Pannonia è di nuovo sotto controllo, trascorso l’inverno è la Dalmazia a essere attaccata in forze. Il comandante in capo divide il suo esercito di dieci legioni in tre colonne: quella al comando di Marco Lepido ottiene strabilianti successi, mentre Silvano bonifica per così dire il territorio. Onde evitare colpi di testa da parte di Germanico Tiberio lo vuole accanto a sé fino a quando, cadute le altre piazzeforti dalmate, dà l’assalto all’ultima rimasta, Andetrium, in cui si è asserragliato un disperato Batone. L’attacco dei legionari stavolta è impetuoso, ma la fortezza è posta in cima a una collina e ben munita: gli assalitori subiscono forti perdite e paiono sul punto di disunirsi. Tiberio fa muovere le truppe tenute prudenzialmente di riserva: investita da più lati la cittadella capitola con grande strage dei difensori. Batone si arrende, ma il trattamento che gli verrà riservato dal vincitore differisce da quello toccato a Vercingetorige. Leggiamo insieme questo passaggio: “Tiberio, che non fu mai un generale assetato di sangue, fece portare il combattente della resistenza illirica nella città portuale di Ravenna, sulla costa italica dell’Adriatico, insieme a un congruo numero di ricchi doni per tenerlo su di morale”. Eppure si continua a celebrare la clementia di Cesare e a stigmatizzare la “doppiezza” di Tiberio Claudio Nerone…
Rimane da chiarire un punto fondamentale: davvero la rivolta illirica mise a repentaglio la stessa sopravvivenza dell’Impero romano, come suggerisce l’appassionato autore newyorkese? Disaminiamo i fatti: a onta delle lodi sperticate rivoltegli da Abdale, che gli attribuisce “numerose vittorie” (di cui non v’è traccia nelle fonti), Batone il Desidiate non è paragonabile per perizia strategica e carisma a uno Spartaco: di lui si ricorda soprattutto la frase pronunciata all’atto della resa “Siete voi i responsabili di ciò, dal momento che in difesa delle vostre greggi inviate come custodi dei lupi anziché cani e pastori (Cassio Dione)”, cui Tiberio non ribatté poiché verosimilmente la pensava alla stessa maniera. Ci sono similitudini e differenze fra l’insurrezione illirica e quella capeggiata oltre mezzo secolo prima da Vercingetorige: i numeri non sono comparabili, perché la Gallia era allora (e anche oggi) assai più popolosa, ma d’altra parte venendo da oriente è assai più agevole dilagare nella pianura che attraversa l’Italia settentrionale, protetta a ovest da una muraglia di altissimi monti – questo senza contare l’abilità marinara degli insorti, in grado di contendere alle flotte romane il dominio dell’Adriatico. Dubito comunque che gli Illiri accarezzassero il sogno proibito di arrivare fino a Roma: il loro unico desiderio era liberarsi dell’oppressore e di certo intuivano che avventurarsi in un territorio sconosciuto li avrebbe esposti alle devastanti conseguenze di una o più battaglie campali contro eserciti di motivati professionisti. Si fossero alleati con Maroboduo avrebbero messo in serissime difficoltà i romani, ma questo non avvenne e a conti fatti il pericolo per l’Urbe fu più potenziale che effettivo.
Con la capitolazione di Andetrium si congeda dalla Storia il popolo degli Illiri, ma non la penisola balcanica, teatro di guerre, eroismi e stragi nei duemila anni che seguiranno.