Le ore pomeridiane erano trascorse rapidamente, e adesso il sole settembrino puntava dritto verso le cime dei colli, indorando un mondo accaldato e sonnacchioso. Tirava un po’ di brezza e nel cortile dell’osteria si udiva sommesso il frinire delle cicale proveniente dalle chiome degli alberi che crescevano attorno e dalle vigne.
A un tavolo appartato erano seduti due uomini in là con gli anni, i cui gesti ed espressioni tradivano un’antica familiarità: esistono, per quanto rare, amicizie che durano una vita intera. Negli sguardi complici si coglievano però note di stanchezza e disillusione.
«Allora Libero, che si prova a essere finalmente in pensione?» domandò Ciano, versandosi un bicchiere di vino rosso dalle cupe tonalità violacee.
L’altro vuotò il suo ottavo, fissando sovrappensiero l’orizzonte aranciato, poi rispose quasi di malavoglia smozzicando le parole: «Dovresti dirmelo tu, visto che ho ancora una settimana di lavoro davanti: ultimi sette giorni da commissario capo – sbadigliò, poi cambiò argomento – Ti ricordi o no che abbiamo festeggiato qui la mia nomina, un secolo fa? Tu, io e Apollo, pace all’anima sua… vinaza a fiumi e ‘na bona gnocada. Altri tempi, squasi bei…» Gli occhi chiari del commissario si illanguidirono, incassandosi fra le rughe che solcavano il volto carnoso e sudaticcio. Tacque, accendendosi l’ennesima sigaretta d’oltreconfine.
«Eh sì, ierimo giovini, audaci e fighi quela volta, nel novezento» scherzò senza troppa allegria il compagno, addentando l’ultimo pezzetto di formaggio rimasto nel vassoio.
«Zovini e basta – tagliò corto Libero, richiamando l’attenzione dell’oste – Pepi, la ne porta ancora mezo de malva e un giardineto? grazie», poi parve ripiombare nelle sue fantasie. Aveva un’aria afflitta, preoccupata, ma forse era soltanto colpa dell’alcol, chissà.
«Commissario capo in extremis – l’ex ispettore Zanetti scosse teatralmente il capo – dovevi finire almeno questore, con tutti i casi che hai risolto! Questo Paese è… irredimibile, proprio».
«A quali casi ti riferisci, amico mio? – un sorriso amaro increspò le labbra del commissario Sassinovich – a quelli risolti ufficialmente o agli altri? E dell’insubordinazione di un remoto settembre ti sei già scordato? La reazione ci ha graziati, ma se la sono legata al dito gli occupanti… a essere sincero manco me l’aspettavo questa promozione, che comunque sa di presa in giro. Presto le nostre pensioni saranno carta straccia, anzi: carta de cul, spero tu te ne renda conto e ti stia preparando».
«Sarà quel che sarà – gemette l’altro, riempiendosi di nuovo il bicchiere – Certo non mi aspettavo di invecchiare in tempo di guerra! Prosit!» Brindarono all’astro calante, alla luna che s’ingrandiva in cielo, alle poche osmize sopravvissute a crisi e modernità. Nessuno dei due era pago dell’esistenza toccatagli in sorte, che pian piano andava accorciandosi come i pomeriggi a dicembre.
«El nostro lo ga’mo fato, anca se xe sta poca roba – sentenziò infine Libero – semo vissudi, come dir?, in periferia, senza né soldi né babe… né vere passioni. Ma per chi che vien ‘desso sarà pezo, ‘ssai pezo che per noi. Prima la pestilenza, poi la guerra che va avanti, non vuole saperne di concludersi… adesso la carestia in arrivo e la prospettiva di una nuova ondata epidemica, che non sarà certo l’ultima. Stiamo assistendo a cambiamenti drammatici e fulminei: niente sarà più come prima, vedrai».
L’ossuto e grigio Zanetti rabbrividì, benché il venticello che annunciava la sera fosse piacevole e per nulla pungente. «Pensi che dobbiamo temere qualcosa in particolare, oltre a qualche missile lanciato per sbaglio? Voglio dire… che questa schifosa situazione… questo susseguirsi di situazioni… possa far comodo a qualcuno dei nostri??»
Libero appallottolò una fetta di prosciutto arrosto intinta nel hren e prima di portarla alle labbra la fissò a lungo, come fosse sorpreso o si aspettasse un qualche suggerimento. «Il problema è che io non so chi siano “i nostri” – bofonchiò a bocca piena, giocherellando con un pezzo di mollica – e neppure se ci siano. Le massime cariche sono appaltate a banchieri e procuratori, i partiti sono fotocopie l’uno dell’altro, a tirare i fili sono gli stranamore d’oltreoceano, che soffiano sul fuoco del conflitto… molta gente non capisce, e quella che capisce resta inascoltata, la politica va per conto suo e i media le tengono bordone senza ritegno né vergogna, silenziando qualsiasi voce critica… e questo schifo hanno il coraggio di chiamarlo democrazia e di volerlo imporre ai Paesi recalcitranti, oltre che a noialtri. Mi sa che dobbiamo attenderci un… grande repulisti, con i passeggeri di prima classe che, dopo aver piazzato neanche troppo di nascosto le cariche esplosive nella stiva, stanno già saltando sulle scialuppe. Patapùm! Noi di terza classe affonderemo in un attimo assieme allo scafo…»
«Sei sempre stato una Cassandra, ma raramente hai avuto torto… purtroppo – concesse Ciano Zanetti, avvilito – d’altra parte non possiamo arrestare il corso degli eventi. Sta ‘ndando tuto a fuc’, xe vero: l’erba è gialla e rinsecchita, le foglie si accartocciano nonostante la calura: manco una goccia di pioggia in un mese… e i telegiornali non parlano d’altro che di siccità e razionamento… anche di guerra e di peste, d’accordo». Bevve un altro sorso di terrano, scacciando con la mano il fantasma di un mussato.
Libero annuì: «C’è una regia, voglio dire: è come se stessero recitando un copione… stanno portando la gente all’esasperazione, un’esasperazione spaventata e rabbiosa. La settimana scorsa… avrai sentito, no, dell’omicidio di via Belpoggio? Una vicenda a suo modo banale, ma sinistra e premonitrice…»
«Tutti ne hanno sentito parlare, accidenti! – fece Zanetti – un’insulsa lite fra condomini finita in tragedia, un povero vedovo inoffensivo ammazzato a martellate dal vicino di casa, anzianotto pure lui e incensurato. Il caso l’hai risolto in un batter d’occhio, fra l’altro».
«Proprio un rebus difficile da risolvere! – commentò sarcastico il commissario – la vittima innaffiava ogni mattina con la pompa… un po’ maniacalmente… le piante del giardino condominiale, il Bernetti… un tipo di solito tranquillo, ci è stato detto, un che stava su le sue, ma con pochi soldi in tasca… lo aveva ripetutamente accusato di sprecare acqua… ‘na matina presto i taca a zigarse, fin che un dei due ghe ciapa el futer e copa quel altro. Il colpevole ha subito confessato, e quando l’abbiamo portato in questura si è preso la testa fra le mani e ha cominciato a piangere e urlare: cossa go fato, madona mia? Mi dirai, caro Ciano, che i delitti per futili motivi sono vecchi come il mondo… concordo in pieno, però stanno aumentando ovunque, perché la gente è tesa, impaurita, sotto stress… e sempre più sola, povera e sfiduciata. Sei al corrente, no, che è cresciuto a dismisura il numero dei taccheggi nei supermarket e nei despar? Miseria e disperazione dilagano, e anziché contrastarle il governo degli ottimi sembra quasi compiacersene… non so come andrà a finire, anzi lo so benissimo: mi chiedo soltanto quanto a lungo possa ancora reggere questo sistema bacato… un anno, un mese, una settimana? Bah, beviamoci sopra, no ne resta altro…»
«Podessimo parlar de robe un poco meno serie, un ninìn più legere – suggerì l’ispettore in pensione, che di quei discorsi tetri ne aveva abbastanza – de balòn, magari!»
«I disi che anca soto ‘l fassismo se parlava de balòn inveze che de politica – gli strizzò l’occhio Libero – ma almeno quela volta l’Unione iera in serie A, ‘desso inveze dovemo contentarse de un zero a zero in casa contro undise pelegrini. Corsi e ricorsi storici!» Sbuffata quell’ultima frase il commissario tornò a perdersi nei suoi pensieri, finché lo sguardo vagante fu attratto dalle effusioni che due ragazzi – una ventina d’anni lui, uno o due in meno lei – si stavano scambiando all’ombra di un melo. Dovevano essere arrivati da poco: sul tavolaccio di legno l’oste aveva appena posato un piattino di affettati, una brocca colma d’acqua frizzante e un quarto di vino. Libero non era affatto un guardone, e usualmente quegli spettacoli lo infastidivano («’Ndè casa vostra a far sporchezi, maleducati» soleva borbottare fra sé, voltandosi imbronciato dall’altra parte), ma stavolta provò un misto di simpatia e compassione per quella coppia adolescente bramosa di estraniarsi dal mondo. Si rivolse a Ciano parlando a bassa voce: «Vedi, amico mio, noi abbiamo più di sessant’anni, abbiamo vissuto epoche diverse, tutte migliori o meno peggiori di questa… e perciò siamo in grado di fare un confronto, abbiamo… voglio dire… gli anticorpi e a quello che ci raccontano facciamo la tara. Loro invece… hanno pochi anni e poca esperienza alle spalle, sono tabula rasa, perciò sono programmabili a piacimento, il sistema può fargli credere ciò che desidera. Tra un po’, ci scommetto, smetteranno di sbaciucchiarsi e si riattaccheranno agli smartphone, restando di nuovo soli con le loro foto, i loro stupidi video… e domani? Se non sono di famiglia agiata troveranno lavori saltuari e malpagati… e non protesteranno nemmeno, poiché non conoscono altro modello che questo», concluse in tono malinconico.
Il pronostico si avverò in parte: la biondina si sciolse a un tratto dall’abbraccio del suo spasimante ed estrasse effettivamente dalla borsetta simil Prada un cellulare di ultima generazione, ma il ragazzo si avventò come un falco sugli affettati misti, non prima di essersi servito un generoso bicchiere di rosso; terminato di mangiare (la compagna, attenta alla linea, si era limitata a piluccare qualche olivetta) si accese soddisfatto una sigaretta. «Mulo sgaio!» osservò Libero, compiaciuto.
Il sole era ormai tramontato, lasciando in eredità al giorno morente una veste multicolore da indossare prima che fosse sera: era tempo di tornarsene a casa. Sassinovich chiamò il conto, che giudicò piuttosto salato. «Pepi ladròn no se smentissi», sospirò.
«Con la mia pensione da sottufficiale presto potrò permettermi a stento pane e acqua!» protestò contrariato Ciano, ma Libero aveva già messo mano al portafoglio: «Per oggi sei salvo, offro io… come quella volta, tanti e tanti anni orsono. La trapa però se la bevemo al banco». Mentre fiaccamente si incamminavano Zanetti buttò là, alzando gli occhi al cielo: «Par una ciolta in giro che la tua prima indagine… disemo uficiosa… gabi riguardado dei russi sovietici, e ‘desso, quaranta ani dopo, xe repete, ga’mo de novo de far con lori».
Sassinovich si adombrò: «Sarìa sta meo se quela… trapola i se la fussi portada a Mosca, come che i voleva, e i fussi rivadi a farla funzionar. Forsi ogi no fussimo in ‘ste condizioni disperade: fra i due contendenti gavemo godù tuti, co xe restài solo i… boni xe ‘ndà tuto in malora. Me auguro che ‘sto mona gabi almeno un poco de brinjevec…»