Spauracchio di innumerevoli generazioni di ginnasiali (fra le quali la mia, nel frattempo invecchiata) l’ateniese Senofonte si rivela al lettore di età adulta un cronista scrupoloso e affidabile, e forse qualcosina in più. Continuatore delle Elleniche di Tucidide, cui lo accomuna la visione politica (conservatrice, diremmo oggi), non ha forse la stessa capacità d’analisi del maestro, ma acume e discernimento non gli fanno difetto – d’altra parte era allievo di Socrate – e lo si apprezza per il brio narrativo che traspare da molte sue pagine: l’opera più nota, Anabasi, è sì una preziosa testimonianza di prima mano, ma anche un modello di romanzo storico e insieme di reportage di guerra.
Della sua vita sappiamo parecchio, ma non tutto – anche perché di certi avvenimenti che lo riguardano il nostro, usualmente prodigo di informazioni sulla sua persona, sembra alquanto restio a parlare. La data di nascita si colloca tra il 430 e il 425 a.C.: un passaggio del suo discorso d’esordio ai Diecimila (“non mi nasconderò certo dietro il pretesto dell’età: al contrario, ritengo di avere l’età per allontanare da me i mali”) può far propendere per quella più tarda, ma è pur vero che – con l’eccezione di Alcibiade – gli strateghi dell’epoca erano quasi tutti avanti con gli anni. Sopravvisse a due figli caduti valorosamente in battaglia e morì ultrasettantenne, dopo un’esistenza travagliata ma piena.
Cosa resta in ombra? Anzitutto i motivi reali che lo spingono a prendere parte alla spedizione di Ciro il Giovane. Presentandosi (Libro III) il narratore scrive: “Vi era nell’esercito un certo Senofonte di Atene, che ne era al seguito senza essere né generale, né locago, né ufficiale. Prosseno (uno dei comandanti trucidati a tradimento dai persiani dopo Cunassa – ndr), che a lui era legato da vecchi legami di ospitalità, lo aveva mandato a chiamare dalla patria; gli prometteva, se fosse venuto, di farlo amico di Ciro, che egli stesso diceva di considerare per sé più importante della patria”. Allettato, Senofonte chiede consiglio a Socrate – anche questo ci viene raccontato – ma le effettive motivazioni della partenza continuano a sfuggirci.
A far luce sulla vicenda è stato lo storico Luciano Canfora, che convincentemente individua nel giovane protagonista uno dei due comandanti della cavalleria – quello rimasto “innominato” – che avevano servito sotto i Trenta Tiranni. Senofonte, più moderato del collega (non a caso tacciato di crudeltà nelle Elleniche), avrebbe fruito dell’amnistia concessa a denti stretti dal vincitore Trasibulo, ma nell’Atene tornata democratica non doveva sentirsi granché al sicuro – per questo, più che per spirito di avventura, avrebbe accolto l’invito di Prosseno.
Considerata la fine fatta poco tempo dopo da Socrate – cui costò cara l’amicizia col famigerato Crizia, capo dei Trenta – non si può dire che il calcolo si rivelò errato: la subitaneità della decisione spiega probabilmente l’assenza di un ruolo preciso nell’armata mercenaria che un giovane ateniese colto e avvezzo al combattimento poteva comunque contare di assumere alla prima occasione utile. Così fu, anche se certi discorsi e imprese possono essere stati abbelliti (non certo falsificati: Senofonte non nasconde antipatie e simpatie, ma si attiene ai fatti) a posteriori…
Più interessante ancora è la questione dell’atteggiamento del cronista nei confronti dei persiani, che nelle pagine dell’Anabasi fanno obiettivamente una figura meschina: incapaci di battersi ad armi pari con i greci ci appaiono timorosi, quasi vili, fedifraghi e indolenti. Già in antico si sosteneva che il racconto senofonteo aveva rivelato agli elleni la debolezza del Gran Re e del suo vastissimo impero, un colosso dai piedi d’argilla, persuadendo più tardi Alessandro dell’assoluta fattibilità della conquista.
Di più: l’idea, sedimentatasi nei secoli in Europa, del levantino intrigante, effeminato e subdolo potrebbe trarre la sua origine proprio da quest’opera antica e avvincente. Magari anche da qualche abbaglio preso dallo storico: la precipitosa ritirata delle truppe di Tissaferne dinanzi al primo assalto dei Diecimila a Cunassa andrebbe letta come prova non di codardia e imperizia bensì dell’avvedutezza strategica del comandante persiano, deciso a trascinare lontano dal campo di battaglia – e quindi a neutralizzare – la componente più agguerrita dell’armata dell’usurpatore, che gettatosi con pochi compagni nel centro della mischia vi trovò una morte non meno stupida che gloriosa. Quello che ha tutta l’aria di un espediente tattico riuscì, e la successiva (temporanea) gratitudine di Artaserse nei confronti del satrapo – cui era ben nota l’irruenza di Ciro – suffraga questa interpretazione.
Altri biasimi sono invece più che giustificati: il tranello teso a Cleone e agli altri comandanti e il loro successivo eccidio ben poco hanno di cavalleresco (anche se rispondono a una certa logica), così come la modesta prova offerta dagli inseguitori è comprovata dal fatto che l’esercito mercenario riguadagnò invitto le coste dell’Asia Minore. Il giudizio tutto sommato sprezzante sugli iranici come combattenti non implica tuttavia un “razzistico” complesso di superiorità: i nemici sono barbari in quanto diversi, non perché inferiori.
Sproloquiare di razzismo a proposito degli antichi è prassi abbastanza comune, ma in quest’accusa anacronistica si mischiano faciloneria, superficialità e l’ideologismo che caratterizza l’età neoliberista, la quale misura ogni cosa col metro del proprio interesse. Come ho provato a spiegare anni orsono il razzismo – cioè la convinzione che esista una “naturale” gerarchia fra le genti e che quelle ai vertici abbiano il “diritto” di soggiogare le altre – è un’invenzione del capitalismo ottocentesco che, bramoso di nuove terre da sfruttare, necessitava per la conquista di un’efficiente manovalanza armata.
L’élite la scovò tra i pezzenti di casa propria, che pure trattava alla stregua di bestie da soma (se non peggio): per farne docili strumenti di sopraffazione inculcò in costoro la falsa coscienza di un’assoluta superiorità sui nativi di altri continenti – quasi un premio di consolazione per le umiliazioni e le ingiustizie sofferte in patria. Il nobiluomo inglese disprezza tanto il fantaccino di Sua Maestà quanto l’indiano e lo zulù, ma si serve del primo per opprimere gli altri due – e questo ci ricorda che spesso le geremiadi antirazziste sviano l’attenzione dall’imperituro fenomeno del classismo, presente sia nella Grecia antica che oggidì.
Voglio concludere questa mia paginetta omaggiando il talento poetico di Senofonte, che non fu un arido compilatore. Torniamo per un attimo ad Atene: è in atto lo scontro decisivo fra i Trenta e i liberatori, “in una giornata particolarmente bella (…) ma quella notte sopraggiunse una abbondante nevicata, che continuò anche il giorno dopo. Coperti di neve, se ne tornarono in città (Elleniche, II, 4)”.
Lui quel giorno c’era e di sicuro indossava la corazza, ma la tensione per la pugna imminente non gli impedì di alzare gli occhi al cielo e di immortalare la “bellezza” di quel mattino di quasi 2.400 anni fa: bastano due righe e il passato si avvicina a noi, acquisendo la concretezza del presente, di un eterno presente.