All’alba del I° secolo a.C. nell’Italia romanizzata infuria la guerra di tutti contro tutti: dopo l’assassinio di Livio Druso, patrocinatore della loro causa, gli alleati italici si ribellano all’Urbe, alcuni per ottenere la bramata cittadinanza, altri accarezzando il sogno di spodestare addirittura i dominatori. Seguirà un conflitto sanguinoso e dall’esito lungamente incerto, prodromo della contesa che opporrà Caio Mario a Lucio Cornelio Silla.
Ambiziosi e divisi da rancori sedimentatisi nel tempo, i due insigni condottieri capeggiano rispettivamente il “partito” popolare e quello che potremmo definire reazionario (gli optimates), schiacciando con la loro personalità comprimari pur degni di nota: Quinto Sertorio da una parte, Crasso e un giovanissimo Pompeo dall’altra. Biondo e spietato, Silla è a suo modo un “puro” all’interno di una società corrottissima: intende riedificare la Roma “virtuosa” delle origini (costi quel che costi, naturalmente!) e compiuta la sua opera si ritirerà a vita privata, ma adesso (88 a.C.) marcia sulla città e ne scaccia con le armi il rivale, per poi scegliersi i nuovi consoli e ripartire per l’Oriente, dove l’attende Mitridate.
Uno degli eletti è quasi un omonimo: Lucio Cornelio Cinna ha servito con onore durante la guerra sociale, ed è ritenuto persona equilibrata, se non malleabile. E’ un popularis senza essere un esagitato: attraversando da legato il Mezzogiorno, tuttavia, si è persuaso della bontà delle ragioni dei ribelli e reputa giusto, oltre che sensato, concedere loro parità di diritti rispetto ai laziali.
L’ottuso collega Ottavio non è affatto d’accordo… et cives ad arma veniunt. Dell’eredità romana il fascismo del “Cesare di cartapesta” (cit. W. Shirer) poteva legittimamente rivendicare soltanto l’uso della violenza più brutale come strumento di lotta politica: nel foro divampa una battaglia che fa migliaia di morti (!) e i conservatori di Ottavio ne escono vincitori. Cinna scappa, ma raggiunto da Mario – il cui prestigio fra poveri e soldati è intonso – raduna un esercito e torna indietro: la vendetta contro il patriziato sarà tremenda, ma lo spargimento di sangue va ascritto per intero al “terzo fondatore di Roma” che vecchiaia e ictus hanno oramai condotto sull’orlo della follia.
Caio Mario muore poco dopo, e il potere passa nelle mani di Lucio Cornelio Cinna, che saprà come servirsene nei quattro consolati consecutivi assomiglianti (molto da vicino) a una dittatura extra ordinem. Cos’ha in mente quest’uomo di cui non conserviamo un ritratto e che gli storici di parte senatoria – cioè praticamente tutti – liquidano con mal dissimulato disprezzo? Riprendere la politica dei Gracchi, alleviando la condizione degli ultimi e rendendo l’Urbe un po’ più democratica e “sociale”: lo desumiamo dalle fonti antiche, in genere ostili e avare di notizie.
Cancellate le misure sillane, Cinna distribuisce centinaia di migliaia di nuovi cittadini, liberti compresi, fra tutte le 35 tribù, in modo che il loro voto nei comizi “conti” per davvero; fa approvare quella che Velleio Patercolo bollerà come turpissima lex, riducendo di tre quarti i debiti accumulati durante la crisi da piccoli commercianti e “gente minuta”; incrementa le distribuzioni gratuite di grano alle masse popolari.
Prima di gridare al “populista” (taccia che per un popularis coerente sarebbe piuttosto un riconoscimento che un’accusa…) dobbiamo tenere a mente alcuni fatti: il primo è che le incessanti guerre e la rapacità dei senatori – latifondisti o finanzieri/usurai che fossero – avevano progressivamente ridotto sul lastrico il ceto medio contadino, che da sempre costituiva il nerbo dell’esercito repubblicano.
Mario ci aveva messo una pezza introducendo un soldo a compenso della ferma, ma questa soluzione era parziale, poiché rispondeva solamente a esigenze di efficienza militare: la remissione ex lege dei debiti puntava invece a favorire il riformarsi di quella che oggi chiameremmo “piccola impresa” e a preservare il ceto medio in declino.
A loro volta le frumentationes, condannate come assistenzialismo ante litteram, sono da un lato le antenate dei moderni redditi universali, dall’altro un abbozzo di intervento compensativo statale e – perché no? – di “servizio pubblico”, a vantaggio di una classe sociale che ad una condizione parassitaria era stata astretta dalle circostanze, cioè dall’altrui smania di profitto. Di altri provvedimenti non resta memoria: la (biasimata) istituzione di una “polizia” formata da Galli rispose senza dubbio ad una necessità del momento.
Di eccessi cinnani o crudeltà gratuite non abbiamo notizia, ma il semplice sforzo di ridurre le disuguaglianze basta agli storici latini per fare di un personaggio un reprobo, se non un “mostro” (Catilina docet): chi controlla l’informazione plagia a piacimento il sentire comune, e se il carattere di un politico mal si presta a caricature demonizzanti è facile (ed utile) far scendere su di lui l’oblio.
L’impressione che ricaviamo dalla sua vicenda umana è che Cinna fosse un tipo severo, intransigente, determinato e forse poco affascinante: di certo non un demagogo. Purtroppo per lui – e per i ceti meno abbienti – si trovò di fronte un avversario dalle mille risorse, la fama della cui felicitas (una buona fortuna propiziata dal valore) impressionava e atterriva le menti: fu forse il terrore di dover affrontare in campo aperto l’invincibile Silla ad armare la mano degli ammutinati che, in un giorno d’inverno dell’84 a.C., ammazzarono in Ancona il loro console prossimo all’imbarco.
Di Cinna Giulio Cesare aveva sposato la figliola: il rifiuto opposto a Silla di ripudiarla equivale a un precoce ed eloquente atto politico, a una dichiarazione d’intenti che – fosse stato il Lucio Cornelio “oscuro” un leader dappoco – un calcolatore come il futuro dictator non avrebbe mai arrischiato.
Per ironia della sorte tra gli assassini di Cesare ritroviamo l’omonimo figlio di Lucio Cornelio Cinna, schieratosi con l’ala più retriva dell’aristocrazia romana: rassomigliava evidentemente poco al padre… a meno che non avesse subodorato che per il conquistatore delle Gallie il mezzo, cioè il supremo potere, contava più del fine.