Lessi qualche giorno fa, sul quotidiano di Trieste, un articolo in cui l’autore (presumibilmente un esperto della materia) sottolineava rischi e conseguenze penali del body shaming, esortando le vittime a denunciare poiché molti di questi comportamenti configurerebbero gli estremi di un reato, dalla diffamazione fino all’istigazione al suicidio.
Cosa si nasconda dietro il misterioso anglismo è presto detto: gli sfottò che bimbi e adolescenti riservano ai coetanei che presentano qualche difetto fisico (l’acne, una voglia su viso, qualche chilo di troppo, un naso imponente o schiacciato ecc.). Inutile aggiungere che questi atti di “bullismo” (come vengono definiti nel pezzo) sono stati risparmiati in gioventù a pochi di noi, e che a ragazzi e ragazze fanno male oggi non più di ieri, potendo ingenerare complessi e insicurezza.
Che i bambini, non ancora avvezzi alla simulazione e dissimulazione tipiche dell’età adulta, possano rivelarsi spietati e cattivi l’aveva ben compreso William Golding oltre mezzo secolo fa, ma c’è da dire d’altra parte che il venire derisi aiuta a crescere, perché ci insegna che non siamo il fulcro del mondo e che la società non ha alcuna intenzione di srotolarci davanti ai piedi un tappeto rosso. Il dileggio umilia (posso testimoniarlo), ma in quanto bagno di realtà è persino salutare – o lo è stato fino a l’altroieri, dal momento che viene adesso equiparato a condotte ben più offensive. Sorge il sospetto che nel mondo odierno a essere messa sotto accusa sia la stessa natura umana, o perlomeno quei suoi aspetti che nocciono a un ordinato e disciplinato vivere sociale.
Il citato fenomeno può essere ascritto alla più ampia categoria del c.d. stalkeraggio, che comprende comportamenti “a bassa intensità” e altri assolutamente pericolosi e lesivi, e che ha recentemente riconquistato le prime pagine per la ben nota vicenda dell’ex ministra Azzolina, la quale è insorta contro la nomina a consulente ministeriale di un professore precario che l’avrebbe in passato offesa e minacciata. Fermo restando che l’esponente grillina si è meritata da parte mia vicinanza e rispetto (per quel poco che valgono, ahimè…) per l’impegno e la passione profusi nel difendere la scuola pubblica e per i vergognosi attacchi ricevuti da pennivendoli che ora incensano Draghi e la sua compagnia di giro “atlantista ed europeista”, nel caso di specie mi pare che il risalto dato alla notizia in sé sia un tantino eccessivo.
A quanto ho potuto leggere fin qui le espressioni usate dallo stalker/hater nei confronti della ministra sono grevi e di pessimo gusto, ma un intento minatorio può essere semmai desunto – e forse con qualche forzatura – dalla “costanza” con cui il professore si dedicava al suo bersaglio preferito più che dai contenuti oggettivi dei post. Solidarietà comunque all’on. Azzolina, che resisté impavida ai predicozzi dei televirologi e si premurò di garantire agli scolari la possibilità di apprendere qualcosa anche in tempi di pandemia.
Per come viene posta, la questione degli haters – o “leoni da tastiera” – sembra una novità del Terzo millennio, ma a ben vedere a essere innovativi sono soltanto gli strumenti (blog e social in genere) tramite i quali il supposto odio viene diffuso. Lo stesso termine “odio” è sovente adoperato a sproposito (e… c’è del metodo in questa follia, chioserebbe qualcuno!) perché conferisce una patina di inammissibilità e pertanto squalifica pure critiche magari veementi, ma argomentate e legittime – questo senza contare che la spada di Damocle di probabili sanzioni raffrena in genere più il contestatore che il violento. Volendo si potrebbe abbozzare una similitudine con la famigerata ideologia del MeToo, che equipara per finalità facilmente intuibili l’infame violenza carnale al complimento sgradito o al bacio sulla guancia “estorto” e tiene il maschio sotto scacco vita natural durante.
Nihil sub sole novi, dunque, a parte l’inedita suscettibilità di un’organizzazione sociale che, allergica a progressi sostanziali, cerca di mostrarsi avanzata moltiplicando forme e formalismi. A essere mutata è la percezione: fatico a immaginare, al giorno d’oggi, un via libera alle vignette di Forattini su Craxi in abiti duceschi, a certe scenette teatrali di Cecchelin, ai graffianti epigrammi di Pasquino – a sdegnarsi sarebbe anzitutto un’opinione pubblica addestrata a essere corriva nei confronti dei modelli comportamentali dominanti.
Eppure gli odiatori sono sempre esistiti, anche quando piattaforme come Facebook non erano neppure lontanamente concepibili. Cogliamone uno a caso, che ebbe l’ardire di insolentire uno fra i personaggi più grandi ed esaltati dalla Storia (e che, a quanto pare, non pagò pegno). Gaio Valerio Catullo (87-54 a.C.) proveniva da un’agiata famiglia di provinciali e, giovanissimo, si trasferì a Roma per inseguire la gloria letteraria – che meritatamente ottenne.
Scopriamo come si rivolge, in un carme, a tale Ameana, amante del potente “ingegnere capo” (praefectus fabrorum) Mamurra, uomo di fiducia di Giulio Cesare: “Ameana puella defututa / tota milia me decem poposcit, / ista turpicolo puella naso, (…)”, più o meno traducibile in “La puttanella A. me ne ha chiesti diecimila, codesta ragazzotta dal naso bruttino”. Che la diffamazione ci sia, e sia anche aggravata, mi pare indiscutibile… Ce n’è pure per l’amicus, definito bancarottiere, e – in altri epigrammi – omosessuale al pari di Giulio Cesare, ladro e baro. Cesare non viene trattato meglio, visto che in un verso il poeta gli dà del cinedo, vale dire della checca (absit iniuria verbis!).
Si noti che nella Roma di allora le liriche dei poeti alla moda circolavano rapidamente, raggiungendo tutti quanti sapessero leggere: proviamo a figurarci cosa accadrebbe oggi se un intellettuale – diciamo così – borderline desse pubblicamente del finocchio o del ladro a un’alta carica dello Stato o a un capopartito. Condanna in sede penale e civile, più l’onta di una squalifica “morale” a vita. Come reagisce invece Cesare? Tenta la strada della riappacificazione, che in un primo momento Catullo rifiuta sdegnosamente, scrivendo di non sapere se il triumviro sia “un uomo bianco o nero” (cioè una persona di valore o un poco di buono… ma oggigiorno suonerebbe male). In seguito scenderà a più miti consigli, ma senza andare a Canossa e al grand’uomo seguiterà a riferirsi con una certa ironia.
Certo, Cesare era un amico di famiglia e questo può averlo indotto a una benevola sopportazione – ma non va dimenticato che, da un punto di vista sociale, il pur ricco e raffinato Catullo (un provinciale) valeva meno di nulla a paragone di un esponente dell’antica Gens Iulia che per di più aveva già rivestito la carica di console. Cosa ci racconta questo episodio, forse che la lotta politica nell’antica Repubblica era condotta da gentiluomini? Proprio per nulla: in Senato ci si azzuffava e ogni adunanza pre e postelettorale lasciava sul campo morti e feriti. Le parole però facevano meno paura: c’era maggior tolleranza rispetto a oggi nei confronti del dissenso e il livello di permalosità della classe politica era assai inferiore a quello cui la contemporaneità ci ha abituato.
Ritengo che a essere diverso fosse l’atteggiamento complessivo nei confronti dell’esistenza: i romani erano infinitamente meno atterriti dalla morte di quanto non lo siamo noi (si leggano le infinite pagine scritte da Massimo Fini sul tema) – perché erano costantemente in guerra oltre che esposti a malattie di ogni genere – e dunque meno attenti a ponderare i possibili effetti negativi delle proprie azioni grandi o piccole. In sintesi: non erano codardi né troppo meschini, al contrario di noi che siamo stati ammaestrati a venerare il fantasma della “sicurezza”. Dimentichi di essere fragili creature passeggere pretendiamo di vivere tranquilli e senza scosse in una sorta di bambagia, e pertanto cerchiamo di non esporci mai, conformandoci all’opinione corrente.
E’ la società stessa a imporci questo atteggiamento “urbano” e remissivo, promettendoci in cambio quella sicurezza che è tuttavia fuori portata – ma viene inscenata da governanti che regolamentano minuziosamente ogni cosa (dalle tecniche di costruzione delle altalene a quelle di produzione di salumi e formaggi) salvo poi perdere la tramontana quando si presenta una situazione magari prevedibile, ma imprevista.
L’attuale pestilenza – di sicuro non la più mortifera nella Storia plurimillenaria dell’umanità – ci fornisce esempi da manuale: all’iniziale sottovalutazione (“qui da noi non arriverà mai”) subentra l’ansia di “congelare il presente” per stornare ogni rischio. L’affermata esigenza di preservazione (del tutto ipotetica) della vita biologica delle persone fa premio su ogni altra: l’essere umano viene visto e trattato come una cosa (o una “risorsa”) che respira; il suo mondo interiore, i bisogni sociali e spirituali scoloriscono assieme alle libertà su cui il sistema occidentale affetta di fondarsi. Residuano i nudi dati, i divieti e le reprimende serali di austeri scienziati – ma il tempo sottratto non ci verrà riaccreditato in futuro. Si badi bene: formulo queste considerazioni fingendo di credere ciecamente nella buona fede di chi regge questa fetta di mondo.
Per la sensibilità oggidì imperante il povero Catullo commise un secondo peccato, quest’ultimo ben più grave e “mortale” del proferire ingiurie all’indirizzo di Cesare (che forse i media del presente liquiderebbero come “feroce dittatore”): oltraggiò e perseguitò con i suoi versi una donna rispettata, anche se poco rispettabile – e visto il precedente di Ameana tocca imputargli la recidiva! Sedotto da Clodia, un’aristocratica più anziana di lui di qualche anno, la cantò appassionatamente sotto il nome di Lesbia, ma quando la disinvolta matrona si stancò di trastullarsi con lui la reazione del poeta fu cruda e rabbiosa. Così l’addita al pubblico ludibrio: “nunc in quadriviis et angiportis / glubit magnanimi Remi nepotes” (trad.: ora agli incroci e nei vicoli / pela i discendenti del magnanimo Remo: il significato è piuttosto chiaro).
Di fronte a un simile trattamento femministe e media insorgerebbero come un sol… uomo contro lo stalker sessista, anche se svolgimento ed epilogo della vicenda amorosa ci svelano una diversa verità nascosta: che è l’appartenenza a una classe sociale prima ancora che a un “genere” a fare la differenza nei rapporti di forza tra esseri umani. La vendetta del miser Catullo si riduce a uno sfogo impotente, anche se marchia per l’eternità colei che, essendo una Metella, poté continuare a fare per tutta la vita quel che più le piaceva e a rivestire un ruolo non secondario nella società dell’epoca.
Non mi va tuttavia di congedare Valerio Catullo nelle vesti di un “odiatore” ante litteram, perché egli fu soprattutto un grandissimo artista. Più di certe liriche un po’ svenevoli su passeri e altri uccelletti mi sono rimasti impressi, dai tempi del liceo, i versi in cui l’uomo dà voce ai propri affetti più profondi. Così si rivolge al fratello morto nella Troade, ispirando tanti secoli dopo Ugo Foscolo: “Multas per gentes et multa per aequora vectus, / advenio has miseras, frater, ad inferias / (…) atque in perpetuum, frater, ave atque vale”.
E’ un addio struggente… o forse un arrivederci, poiché Valerio morirà pochi anni dopo, ancora nel pieno della giovinezza. Prima avrà modo però di regalarci un’indimenticabile e luminosa descrizione del fiorire della primavera in Bitinia (Carme 46 delle Nugae): “Iam ver egelidos refert tepores, / iam caeli furor aequinoctalis / iucundis Zephyri silescit aureis. / Linquantur Phrygii, Catulle, campi / nicaeaeque ager uber aestuosae: / ad claras asiae volemus urbes (…).”
Ecco: in questa mattinata di sole e di festa a metà avverto nell’aria i profumi di una remotissima primavera e mi par di intravedere, in lontananza, le bianche città dell’Asia come apparvero sfolgoranti a Catullo – tale è il magico potere della verità e della poesia.