Fu un polacco, Ferdinand Ossendowski, col suo bestseller Bestie, Uomini, Dei a creare il mito del Barone Sanguinario Roman von Ungern-Sternberg, un sinistro avventuriero di origine baltica che, dopo essersi ferocemente battuto in Estremo Oriente contro l’Armata Rossa, andò incontro nel 1921 alla fine che si meritava.
Nelle file delle armate bianche controrivoluzionarie e ai loro vertici moltissimi erano, in realtà, gli aristocratici: gente che combatté accanitamente per salvaguardare privilegi immorali e fuori dalla Storia, ma – per i loro difensori – irrinunciabili. Tutto questo è ben noto, molto meno il fatto che anche nelle schiere della gloriosa Armata Rossa militarono uomini che avevano abbracciato la causa proletaria pur provenendo da classi sociali almeno sulla carta altolocate.
Konstantin (battezzato Konstanty) Konstantinovich Rokossowskij nasce a Varsavia il primo giorno di inverno del 1896. Il patronimico è un’invenzione russa, perché il padre si chiamava Ksawery e, benché di modeste condizioni economiche, apparteneva alla Szlachta, la piccola nobiltà polacca. La Rzeczpospolita (=Res publica) Polska è sin dall’alto medioevo un Paese di todos caballeros: il tredici per cento degli abitanti si fregiava di un titolo nobiliare, cui spesso corrispondeva un patrimonio men che misero. Pochi o nessun campo, ma tanta fierezza: Konstantin è figlio di quel ceto, ed è in virtù dell’estrazione sociale che lui – orfano e abbastanza povero – viene ammesso all’accademia militare di Pietrogrado e diventa ufficiale dell’esercito zarista.
Nel ’17 passa dalla parte dei rivoluzionari e poi partecipa, in sella a un destriero, alla campagna contro la Polonia di Piłsudski. Non è affatto un rinnegato: polacco fino al midollo – come testimoniano anche i suoi ritratti – crede che per il riscatto dell’amatissima patria sia indispensabile una rivoluzione egualitaria. In quella spedizione conosce Tuchačevskij – nobile pure lui – di cui negli anni seguenti diverrà amico e che meccanizzerà l’esercito dell’URSS, ma alle porte di Varsavia succede l’imprevisto: i cavalieri polacchi travolgono gli invasori sovietici costringendoli a ritirarsi. Per Rokossowskij quella sconfitta è anzitutto una tremenda delusione: fiducioso nelle parole di Lenin egli era partito per liberare i compatrioti, non certo per asservirli.
Nell’Unione Sovietica di Stalin il giovane ufficiale fa rapidamente carriera: le origini nobiliari non sono di ostacolo a chi, oltre a un’indiscussa fede socialista, dimostra perizia e intraprendenza. Tutto va per il verso giusto finché Iosif Vissarionovich non rivolge la propria attenzione all’esercito, divenuto improvvisamente ai suoi occhi un covo di traditori: Tuchačevskij, geniale teorico della Blitzkrieg, finisce giustiziato, chi gli sta accanto ne condivide la sorte. Konstantin il polacco si salva, ma viene rinchiuso in un campo di concentramento e colà sottoposto ad angherie e sevizie: racconta lui stesso che, richiamato in fretta e furia da Stalin, gli si presenterà dinanzi al Cremlino con gli occhi pesti e due denti in meno.
L’Operazione Barbarossa scatenata nel ’41 da Hitler ha messo a nudo la debolezza di un’Armata Rossa privata dei suoi capi, sostituiti da onesti mestieranti come il povero Pavlov, mediocre comandante in Spagna: il susseguirsi di disfatte impone all’autocrate di affidarsi ai superstiti delle purghe e a ufficiali-outsider come Žukov, che in Estremo Oriente ha frustrato le mire espansionistiche giapponesi.
Rokossowskij assiste il collega nella difesa di Mosca (tardo autunno del 1941): insieme i due generali riescono a rintuzzare i tedeschi e a volgerli in fuga. E’ il primo successo bellico dei sovietici, anche se si è trattato di una battaglia di contenimento. Rokossowskij e Žukov si stimano, ma non si amano: il primo rimprovera al secondo un eccesso di durezza, il disinteresse per il destino dei soldati mandati all’assalto (e sovente allo sbaraglio). E’ singolare, ma forse non troppo, che a trattare operai e contadini in divisa come carne da cannone sia l’ufficiale di nascita proletaria, a risparmiarne il più possibile la vita sia il nobile – più tardi, d’altra parte, la propaganda bolscevica attecchirà maggiormente fra gli ufficiali italiani prigionieri, laureati o diplomati, che tra i soldati semplici di provenienza campagnola e per lo più illetterati.
Spiace dirlo, ma la povera gente si comporta spesso da inconsapevole alleata – o serva – di chi la opprime. I due grandi condottieri sono diversi in tutto: nei modi, nei comportamenti, nella fisionomia. Žukov è un uomo tarchiato, basso di statura ma possente, imperioso e facile agli scoppi d’ira – il figlio del ferroviere Ksawery è alto, beneducato, distinto, e da buon polacco sfoggia con naturalezza un’espressione malinconica che ammalia le donne. Ama la solitudine – a dircelo è lui stesso, rievocando nelle sue memorie un burrascoso incontro con Stalin, sul quale torneremo. Durante la parata della vittoria, nel 1945, cavalcheranno per la prima e ultima volta insieme sulla Piazza Rossa: rigido e impettito il conquistatore di Berlino, elegante e a suo agio il quarantanovenne Rokossowskij.
Tra la difesa di Mosca e il trionfo passano quattro anni di guerra totale: il brillante ma umanissimo Konstantin è protagonista a Stalingrado, ispirando a Vitaly Grossman in Vita e destino la figura di Novikov, poi nella campagna di Bielorussia. Prima dell’offensiva finale c’è tempo per un confronto con Stalin al Cremlino, narrato dallo stesso protagonista: il dictator pretende un unico attacco frontale, l’esperto comandante ne suggerisce uno duplice, a tenaglia.
Il Segretario non è d’accordo, e invita Rokossowskij a uscire dalla stanza “per riflettere”, ma – nonostante le velate minacce dei tirapiedi del capo – il generale non cambia idea, e alla fine la spunta: la campagna sarà un clamoroso successo. La prova più dura lo aspetta però ancora una volta a Varsavia: promosso maresciallo, Konstantin, dopo una celere avanzata, occupa con le sue truppe il quartiere Praga, che la Vistola separa dai fasti del centro cittadino. Il rione, oggi popolato da stranieri (perlopiù vietnamiti, giunti negli anni ’70-‘80), assomiglia a uno dei tanti anonimi centri di provincia che costellano la campagna polacca: opifici, qualche chiesa, grigie abitazioni di lavoratori. Dall’altra parte del fiume è scoppiata l’insurrezione antinazista: i patrioti dell’Armia Kraiowa tentano di scacciare l’odiato dominatore e lo impegnano duramente.
Rokossowskij potrebbe intervenire, ma i suoi ordini parlano chiaro: non deve immischiarsi. La disposizione è cinica, ma nient’affatto irragionevole: gli insorti sono fieramente anticomunisti (come i vincitori del 1921) e la repressione della rivolta costerà ai tedeschi parecchie risorse, facilitando la successiva conquista sovietica della capitale. Il nobiluomo in uniforme assiste impotente alla rovina della città natale, al sacrificio di tanti eroi: i compatrioti non gli perdoneranno mai l’inazione, ma la pena più crudele è il tormento interiore che lo accompagnerà negli anni a venire.
Terminata la guerra Konstanty, figlio di Ksawery, verrà “esiliato” nella natia Polonia (diventata comunista) da Stalin: ufficialmente ministro della difesa sarà una specie di proconsole, un controllore teleguidato da Mosca. Non abuserà mai dei suoi poteri, tutt’altro che “pieni”, ma neppure riuscirà a cattivarsi l’affetto e la stima dei sudditi. Gli ultimi anni, lontani dalla patria, saranno amarissimi: “per i russi sono sempre rimasto un polacco, per i polacchi sono ormai un russo”, annoterà con virile rassegnazione, prima di spegnersi nel 1968.
Lessi, qualche tempo fa, dell’intenzione del consiglio comunale di una città – forse Danzica – di revocare al maresciallo, morto oramai da decenni, la cittadinanza onoraria: non so come sia andata a finire, ma decisioni simili si inseriscono a pieno titolo nell’odioso fenomeno della c.d. cancel culture che caratterizza questi tempi infelici e risponde perfettamente all’esigenza del Capitale (che all’occorrenza non disdegna di truccarsi da “sinistra”) di sbianchettare la memoria del passato per far credere ai sudditi che sia questo, per quanto schifosamente ingiusto, l’unico mondo possibile e desiderabile.