Al termine del suo viaggio infernale Dante si imbatte ne “lo ‘mperador del doloroso regno”, descritto senza la velata ammirazione che gli tributerà Milton in Paradise Lost: Lucifero è un gigante spaventoso ma dall’aspetto laido e animalesco, nei cui occhi vuoti non c’è traccia di magnanimità e sinistra grandezza. Il mostro ha tre facce e ciascuna delle bocche bavose dilania con le zanne acuminate un uomo colpevole di tradimento. Il posto d’onore (si fa per dire) spetta a Giuda Iscariota, il traditore per antonomasia, ma analoga sorte tocca a Bruto e Cassio, gli assassini di Cesare.
La scelta dantesca è un segno inequivoco dell’enorme stima goduta nel medioevo dal fondatore dell’Impero Romano, che viene indirettamente paragonato a Cristo, ma la pena inflitta ai due cesaricidi può sembrare al lettore eccessivamente crudele se si considera che molti continuano a onorare in Marco Giunio Bruto un vindice della libertà repubblicana o perlomeno un oligarca coerente, vista la scelta di campo ai tempi della guerra civile.
Non merita le attenuanti (perlomeno quelle generiche) concesse a Marco Bruto un suo quasi omonimo, il cui nome semidimenticato dalla Storia fu storpiato da Shakespeare in “Decio”. Decimo Giunio Bruto Albino nasce a Roma nell’84 o nell’85 a.C. da famiglia altolocata: creatura di Giulio Cesare, lo seguirà in Gallia e nella guerra contro Pompeo, acquisendo l’affetto più che la benevolenza del grand’uomo.
Del nostro protagonista non abbiamo alcun ritratto: il secondo cognome suggerisce un’adozione da parte di un Postumio Albino non meglio identificato piuttosto che una carnagione chiara. Risulta tuttavia che in Gallia Cesare lo impiegò in qualche occasione come spia e che Decimo, alla fine della sua avventura, tentò di salvarsi travestendosi da celta: oltre all’attestata facilità ad apprendere le lingue il giovane romano doveva avere tratti poco mediterranei, e una capigliatura tendente al biondo.
Sui connotati possiamo soltanto avanzare delle ipotesi, ma le qualità militari non sono in discussione: il proconsole gli affida la flotta prima del difficile confronto con i veneti, navigatori provetti, e Decimo consegue sulla Manica una clamorosa e definitiva vittoria. Si ripeterà davanti a Marsiglia, nel corso della guerra civile, sconfiggendo le navi pompeiane; in precedenza il suo contributo (come comandante della cavalleria e poi di truppe appiedate) nella repressione della rivolta di Vercingetorige è annotato con compiacimento da Giulio Cesare nel De bello gallico.
La defezione di Tito Labieno, vero alter ego del conquistatore delle Gallie, sembra assicurare a Decimo compiti di primissimo piano, ma Cesare gli affida un comando periferico e parte per l’Epiro senza di lui: non è una dimostrazione di sfavore, anche perché dopo il trionfo di Farsalo l’aspirante imperatore dovrà affrontare numerose e ardue prove, l’ultima delle quali è la battaglia di Munda, in Spagna.
Che insomma l’ipotizzata delusione iniziale si muti in risentimento è perlomeno dubbio, se non altro perché Cesare, di ritorno dall’Iberia, vuole accanto a sé sui carri trionfali oltre a Ottaviano e Marco Antonio lo stesso Decimo Bruto, con cui è prodigo di onori: dopo l’incarico ad interim nella Gallia Comata gli promette il governatorato della Cisalpina e, raggiunta l’età giusta (nel 42 a.C.), il consolato. Non solo: all’apertura del testamento del Divo Giulio i romani scopriranno che egli aveva indicato Decimo come proprio erede “sostituto” per l’eventualità in cui il giovane Ottaviano non avesse voluto o potuto succedergli.
Quali allora le ragioni di un voltafaccia che stupì e indignò la maggioranza dei contemporanei? Grazie alla sua fama, sproporzionata ai meriti di un personaggio anguillesco e vanesio, gran parte dell’epistolario di Cicerone è giunta fino a noi, e all’interno della raccolta possiamo leggere alcune missive che l’oratore e Bruto si scambiarono dopo la morte cruenta del “tiranno”.
Apprendiamo che il coinvolgimento di Decimo nel complotto non fu un azzardo immotivato: il nostro era proprietario nell’Urbe di una scuola di gladiatori che post factum avrebbero potuto rivelarsi molto utili. Alcuni congiurati, inoltre, avevano ragione di credere che – nonostante l’enorme debito di riconoscenza e le apparenze – Decimo Bruto avesse segretamente mutato atteggiamento nei confronti del suo benefattore.
Gli ideali di cui si ammanteranno tanti cospiratori non c’entrano naturalmente nulla: a spingere Bruto Albino a quello che si configura come un parricidio è l’(eccessiva) ambizione frustrata. Lo desumiamo dalle lettere scritte – in un ottimo latino – a Cicerone, sponsor occulto della congiura: l’ex ufficiale cesariano non spende parole per giustificare le sue azioni né manifesta alcun pentimento, ma si preoccupa moltissimo di tutelare i propri interessi.
Torniamo al 15 marzo del 44 a.C. Non è sicuro che Decimo Giunio Bruto abbia vibrato una delle ventitré pugnalate, ma il suo ruolo nella vicenda è senz’altro decisivo: quella fatidica mattina è lui a recarsi a casa di Cesare per persuaderlo a partecipare alla seduta. Scosso dai presentimenti della moglie Calpurnia e da vaticini sfavorevoli il dictator si è quasi deciso a disertarla, ma le suadenti parole del pupillo (di cui si fida ciecamente e che a detta di Appiano mediterebbe addirittura di adottare!) scacciano dubbi e timori.
Le fonti non riportano uno scambio di convenevoli, ma il paragone con Giuda ci sta tutto – con la differenza che quest’ultimo proverà perlomeno rimorso per la malefatta. Non si sa – dicevo – se Decimo abbia preso parte all’esecuzione, dopo averla propiziata: in caso affermativo non è affatto da escludersi che il celeberrimo (e forse apocrifo) lamento Quoque tu Brute… fosse rivolto a lui anziché a Marco Giunio, che al contrario del lontano cugino non è nemmeno citato nel testamento di Cesare.
A cose fatte il traditore preme sul senato, momentaneamente controllato dall’Arpinate, per ottenere la legittimazione degli atti compiuti; dopo l’iniziale spaesamento seguito al delitto, che non gli impedisce tuttavia di ragionare con lucidità (e di tracciare un quadro realistico della situazione a beneficio di Cassio e Marco Bruto, passati in Asia), si affretta a raggiungere la provincia assegnatagli – la Cisalpina, molto vicina a Roma – e colà mette insieme un esercito.
Rivelatrice è l’enfasi con cui si sofferma su una campagna condotta (a suo dire) vittoriosamente contro non meglio precisate popolazioni alpine dell’attuale Piemonte: insiste perché gli sia concesso il trionfo, che gli consentirebbe – disponendo lui di alcune legioni in armi – di diventare arbitro della situazione a Roma (questo non lo dice, ma lo pensa senz’altro). La corrispondenza sopravvissuta ci permette di farci un’idea dell’uomo: Decimo Bruto è scaltro, calcolatore, metodico, per nulla incline a facili ottimismi.
A differenza di Cicerone non sottovaluta gli avversari: teme Marco Antonio e si avvede fin da subito della pericolosità di Ottaviano – verso il quale nutre animosità personale, quasi quel giovane di nascita oscura gli avesse sottratto l’eredità di Cesare. Pregusta – lo si intuisce – i pieni poteri, ma per agire in modo conseguente gli fa difetto l’audacia: per muoversi pretende una copertura “istituzionale” che (sarà lo stesso Cicerone a rammentarglielo) non ha certo chiesto quando si è imbarcato nell’impresa omicida.
Meraviglia il lettore che un uomo d’arme freddo e di pochi scrupoli si riveli, alla prova dei fatti, timoroso di prendersi responsabilità (moralmente) assai meno gravi di quelle assunte poco tempo prima – il tentennamento gli sarà in ogni caso fatale.
I giorni di incertezza e relativa “quiete” seguiti all’omicidio nella Curia servono infatti ai principali attori per riposizionarsi, e preannunciano la tempesta che sarà scatenata prima da Marc’Antonio e poi – con maggiore profitto personale – dal giovanissimo e imprevedibile Ottaviano: dopo le esitazioni iniziali (che gli sono costate sospetti di correità) il primo si erge a vendicatore dell’illustre imperator e, radunate le milizie cesariane, si mette velocemente in marcia alla volta della Cisalpina.
Decimo perde all’improvviso la posizione di vantaggio che si illudeva di aver guadagnato e, costretto sulla difensiva, si chiude con le proprie truppe entro le mura di Mutina (Modena). Prendere d’assalto la città si rivela impossibile per l’attaccante: comincia un’incerta partita a scacchi tra due avversari esperti dell’arte militare e che oltretutto si conoscono alla perfezione.
A questo punto è il futuro Augusto a prendere l’iniziativa: arruola un esercito privato e gioca d’astuzia, spacciandosi per un puer inesperto, affranto e bramoso di giustizia. Ostentando ammirazione e deferenza si ingrazia il vanitoso Cicerone e, grazie ai buoni uffici del retore, ottiene dal Senato che Antonio sia dichiarato nemico pubblico e che ben due armate consolari si mettano alle sue calcagna. Ottaviano le segue in qualità di pro praetore (non poco per un ragazzo di neanche vent’anni!), ma assurgerà ben presto a protagonista: Antonio è battuto, ma molto opportunamente i consoli Irzio e Pansa muoiono per le ferite riportate in battaglia.
Ottaviano è ormai padrone della situazione e a Decimo Bruto – cui manifesta apertamente la sua inimicizia – non resta che abbozzare e ribadire una volta ancora la legalità formale delle azioni compiute. Questa ostinazione a nascondersi dietro cavilli giuridici gli fa poco onore, avvicinandolo a certi politicanti contemporanei; persuaso di avere ancora carte da giocare si lancia però, col beneplacito del Senato, all’inseguimento dello sconfitto Marc’Antonio, riparato in Gallia.
I suoi soldati non hanno tuttavia dimenticato il tradimento perpetrato ai danni di Giulio Cesare, che amano ancora, e incominciano ben presto a defezionare passando al nemico: rimasto con un pugno di uomini il cesaricida decide di piegare verso oriente al fine di ricongiungersi con Bruto e Cassio. Per passare inosservato non trova di meglio che fingersi un mercante celta, ma catturato da un capo gallico viene da questi riconosciuto e sgozzato assieme alla scorta.
L’uomo che aveva governato la Gallia Comata cullando forse il disegno di succedere al suo mentore muore come un ribelle qualsiasi in un villaggio sperduto, e sparisce letteralmente dalla Storia. Abile, colto, spregiudicato e perspicace ci risulta odioso per la sua ingratitudine – a decretarne la rovina fu comunque l’assenza di alcune qualità che contraddistinguono i Grandi come Cesare (e lo stesso Augusto): tempismo, fulmineità di decisione e propensione a giocarsi all’occorrenza il tutto per tutto. Memento audere sempre, anche perché a nessuno il destino concede garanzie.