Un caldo mezzodì d’inizio estate: il sole è a picco sui polverosi sentieri che costeggiano il letto di un Metauro quasi in secca, anche se in pozze d’acqua più profonda nuotano carpe di notevoli dimensioni. Poco refrigerio regalano le chiome di alberi d’alto fusto; siamo vicini al mare, e il fiume scorre placido fra basse colline coltivate. Sul cucuzzolo di una di queste, a circa 200 metri s.l.m., sorge il borgo medievale di Montefelcino, ma le frazioni sonnecchiano a valle: fra due di queste – Sterpeti e Ponte degli Alberi – si sviluppa una modesta zona industriale, che mi appare deserta e semiabbandonata (ma è domenica).
Nel giugno del 207 a.C. il territorio circostante doveva avere un aspetto assai più selvaggio, senza capannoni, bar, casolari e campi di frumento. Sebbene non tutti gli storici concordino – c’è chi propende per le vicine Fossombrone e Colli al Metauro, chi invece indica località più lontane dalla costa – è probabilmente su una di queste spianate che si combatté la decisiva battaglia fra due eserciti consolari e quello di Asdrubale Barca, secondogenito di Amilcare e fratello minore del sommo Annibale. Pare che i due consanguinei, prossimi per età, nutrissero grande affetto reciproco, ma il genio militare paterno era stato ereditato da uno solo: il vincitore di Canne.
Asdrubale, nato nel 245 a.C. a Cartagine, è un efficiente secondo in comando, che a un certo punto si trova investito di enormi responsabilità. Tocca riconoscergli che, malgrado tutto, non se ne lascerà schiacciare. Quando parte per l’Italia, tanti anni prima, Annibale affida infatti al fratello il controllo dell’Iberia assieme alla parte meno agguerrita dell’esercito punico, intuendo che Roma non rinuncerà ad aprire un secondo fronte. Così in effetti avviene: il padre e lo zio del futuro Africano, già sbaragliati sulla Trebbia, sbarcano in Spagna con ingenti forze e costringono i cartaginesi sulla difensiva. Asdrubale, che dispone di milizie contate e non tutte affidabili, dimostra all’inizio indubbia abilità, accorrendo veloce sul luogo dello sbarco e vincendo una scaramuccia, ma poi la sua flotta – esigua – viene sorpresa e annientata dagli invasori e lui stesso è messo in fuga sull’Ebro. E’ abbastanza singolare che gli storici romani, pur sottolineandone le (frequenti?) sconfitte, descrivano Asdrubale come un eccellente generale, secondo per perizia solo al fratello.
Potremmo pensare che esaltino il nemico per glorificare in realtà se stessi, ed è questa in fondo l’opinione del grande storico contemporaneo Giovanni Brizzi, che definisce il secondo dei Barcidi “un buon generale cartaginese”, cioè un condottiero mediocre e prevedibile. In verità, però, i parziali insuccessi rimediati non gli impediscono nel 212 a.C. di liberare l’Iberia dai romani, sgominando gli eserciti degli Scipioni che cadono entrambi in battaglia. In precedenza dopo presunte rotte Asdrubale aveva mostrato quella che i media odierni, servilmente inclini agli anglismi, amano chiamare “resilienza”: sa sempre sganciarsi al momento opportuno e seda con energia in più occasioni le velleitarie rivolte dei capi iberici. Quando poi scoppia una ribellione in Africa viene chiamato proprio lui a reprimerla, e in questa circostanza prova di non demeritare il “cognome” Barca, che significa per l’appunto fulmine. Dotato anch’egli di perfidia plus quam punica gioca poi sui Pirenei il console Nerone, che è quasi riuscito a intrappolarlo in una gola: Asdrubale finge di parlamentare, prende tempo e dà modo all’armata cartaginese di sgattaiolare via sotto il naso delle legioni.
Il secondogenito di Amilcare ci si presenta insomma come un uomo prudente, pratico, astuto e assennato, oltre che devoto al fratello, cui è ansioso di recare aiuto. Se di Annibale ci resta un ritratto marmoreo, della fisionomia di Asdrubale non sappiamo pressoché nulla: alcune monete ritrovate in Spagna raffigurano un uomo sbarbato, dai tratti aquilini e con un serto in capo, ma è probabile che a essere effigiato sia l’omonimo Asdrubale il Bello, che governò quello che era a tutti gli effetti un feudo della famiglia Barca dopo la morte di Amilcare. Invero prima di incontrare il suo destino sul Metauro – nei pressi di Senigallia, precisa Tito Livio – il nostro uomo subisce un’unica sconfitta clamorosa: a Baecula, nel sud della penisola iberica, dove Scipione iunior adotta per la prima volta la tattica dell’aggiramento sulle ali.
Asdrubale si era cautamente accampato col suo esercito – inferiore di numero a quello avversario – su un pianoro poco elevato, in attesa di Magone e Asdrubale Gisconio, ma il giovane romano, che ha appena preso d’assalto Cartagena, lo batte sul tempo e, risaliti i versanti, stringe i nemici in una morsa. Sull’entità della vittoria delle truppe legionarie si leggono valutazioni discordanti: la perdita di quasi ventimila uomini fra caduti e prigionieri è poco credibile, ma alcuni storici odierni – prendendo la cifra sostanzialmente per buona – concludono che il Barcide si sarebbe salvato per miracolo assieme a un pugno di cavalieri, mentre altri sostengono che egli, pur sonoramente battuto, sia riuscito a dileguarsi con il grosso del suo esercito. La seconda tesi è suffragata dagli sviluppi successivi: Asdrubale si ritira verso settentrione e Scipione rinuncia a inseguirlo – scelta improvvida se l’avversario fosse effettivamente un fuggiasco senza risorse né prospettive, oramai alla mercé del vincitore.
In fondo la cattura o l’uccisione del supremo comandante punico significherebbe la fine anticipata del conflitto in Spagna, ma sta di fatto che a prendere l’iniziativa è proprio Asdrubale che, raggiunti di gran carriera i Pirenei, passa poi nella Gallia meridionale e si mette affannosamente a reclutare uomini per allestire un grande esercito e invadere a sua volta l’Italia. Ex malo bonum? Mario Silvestri, ne “La vittoria disperata”, la bolla come “offensiva della disperazione”, ma le prime mosse del nostro duce non sono quelle di un uomo scoraggiato e vinto: rafforza infatti il nucleo di guerrieri ispanici – evidentemente non tutti ammazzati a Baecula! – con un numeroso contingente gallico (ci sarebbe riuscito un mestierante privo di credibilità e carisma?) che conduce poi in Italia attraverso i passi alpini (aprile 207 a.C.) con una celerità tale da sbigottire i romani e meravigliare lo stesso Annibale, che su quei sentieri ghiacciati ci aveva quasi rimesso le penne vedendo dimezzarsi la sua armata. Ad Asdrubale, che ha compiuto un’impresa difficile e gloriosa, si affiancano torme di guerrieri liguri insofferenti al giogo romano: lo scopo del condottiero è congiungersi il più presto possibile con il fratello, che combatte nella lontana Puglia.
Perché allora perde del tempo prezioso assediando vanamente Piacenza? Taluni storici gli rinfacceranno questa scelta stimandola illogica, ma lui sa di guidare un esercito raccogliticcio, militarmente mediocre e formato da uomini che non hanno mai combattuto insieme: desidera giustamente rodarli, abituarli alla disciplina e alle proprie tattiche. I romani, in ogni caso, prendono la nuova minaccia molto sul serio: il console Livio Salinatore è sulle sue tracce, e i primi contatti avvengono nel nord delle Marche. E’ a questo punto che il collega Nerone – quello buggerato sui Pirenei – spariglia le carte: si oppone ad Annibale nel meridione ma, catturati alcuni messaggeri inviati dall’altro Barcide, concepisce il piano audacissimo di lasciare di nascosto il campo con i reparti migliori, alla cui testa si mette in marcia verso il nord.
Incredibilmente il vincitore di Canne non si accorge di nulla, ma è invece Asdrubale, qualche giorno dopo, ad avvedersi che qualcosa sta succedendo nell’accampamento romano che lo fronteggia. Sente più squilli di tromba del previsto e, da uomo sagace qual è, ha l’intuizione giusta: fra le tende si nasconde un secondo esercito consolare. Sa che le proprie truppe sono quantitativamente e qualitativamente inferiori a quelle nemiche, e allora tenta un ultimo gioco di prestigio: nottetempo raduna gli uomini e abbandona di soppiatto la posizione occupata. Guadagna parecchie ore di vantaggio, ma viene tradito dalle guide e si smarrisce lungo il corso del Metauro. E’ mattina inoltrata quando i romani lo raggiungono, costringendolo a un combattimento dall’esito scontato. Sceglie allora un terreno angusto, per ridurre la probabilità di essere accerchiato, e dispone i suoi guerrieri in modo che lo schieramento abbia la massima profondità possibile: come il fratello a Zama anche lui prova a vincere la battaglia al centro. Ha poca cavalleria, ma non gli mancano elefanti: a loro sarà affidato il primo colpo. Asdrubale diffida delle qualità militari dei celti, coraggiosi ma indisciplinati: li ordina perciò su un’ala, ritengo quella più lontana dal fiume visto che le testimonianze riferiscono che a proteggerli dai primi assalti legionari furono gli ostacoli di un terreno accidentato e presumibilmente in salita.
L’altro corno dello schieramento è composto da ispanici, gli unici a essere paragonabili ai romani per armamento e soprattutto gli unici in grado di combattere in acie; al centro, dietro la fila di pachidermi, stanno i liguri. In quelle difficili circostanze il secondo dei Barca esibisce talento autentico al cospetto di contendenti che stanno apprendendo la lezione di suo fratello, e all’inizio infatti il successo pare arridergli: gli elefanti sfondano le linee nemiche, Livio Salinatore – minacciato direttamente – deve richiamare le riserve per non cedere di schianto. Un lampo di genio di Claudio Nerone risolve la giornata: saranno forse irraggiungibili i galli, ma non rappresentano un’insidia vuoi perché spossati dall’ubriachezza serale vuoi – più verosimilmente – perché fiaccati dalle lunghe marce cui non erano abituati. Nerone e i suoi legionari girano attorno ai loro commilitoni in gravi ambasce e poi tutt’un tratto ricompaiono e assalgono lateralmente i celtiberi, che stanno producendo il massimo sforzo.
Lascio spazio all’ingegner Mario Silvestri che, riecheggiando parole antiche, descrive l’ultima fase della battaglia spendendo per lo sfortunato condottiero punico frasi che compongono un ammirato epitaffio: «Gli iberi vengono fatti a pezzi. A metà della giornata la disfatta di Asdrubale ha già preso proporzioni drammatiche (…) Asdrubale è dappertutto, a esortare, a prendere egli stesso il comando di una sezione per un contrattacco, a punire, a respingere gli sbandati e riordinarli. Fa tutto quello che può. Quando però si rende conto che la partita è perduta, vuole condividere la sorte dei suoi soldati che hanno riposto in lui tanta fiducia. Si getta nella battaglia e muore combattendo (pag. 388)».
Ecco, diciamocelo: il buon comandante cade come il più magnanimo degli eroi, e l’oltraggio riservatogli dai vincitori fa giganteggiare ancor più la sua nobile figura. Tormentato da vespe e zanzare in riva al Metauro ho provato a immaginare con gli occhi della fantasia quel lontano epilogo, fissando le acque scintillanti e il pigro pinneggiare delle carpe. Nell’aria anziché grida di guerra il frinire delle cicale.