L’umanità ha sempre convissuto con le pestilenze che, falcidiando generazioni intere, ne hanno occasionalmente rallentato la marcia, senza però mai arrestarla del tutto.
Vado a memoria, tralasciando gli episodi del più remoto passato che pure, per vittime e sopravvissuti, dovettero assumere i connotati di un’incancellabile tragedia. Nella seconda metà del V secolo a.C. nella città greca di Atene assistiamo a una fioritura artistica e intellettuale che ha pochi eguali nella Storia, ma non è frutto del caso: la metropoli attica, dopo aver sconfitto a più riprese gli eserciti persiani, è assurta a sua volta a capitale di un impero marittimo di cui drena senza troppi scrupoli le risorse.
L’abbondanza d’oro e d’argento serve non soltanto a mantenere una flotta militare di pronto impiego, ma anche a finanziare la costruzione di edifici magnifici che – nelle intenzioni dei governanti – dovranno attestare la superiorità ateniese sugli altri elleni e “catturarne le menti” (in attesa di soggiogarne le forze). La città ha però un contraltare capace di frenarne le mire espansionistiche e di metterne addirittura a repentaglio l’autonomia: è Sparta, una società di combattenti che non innalzano templi sontuosi, ma che sul campo di battaglia non hanno rivali. Lo scontro per l’egemonia è inevitabile e il “primo cittadino” ateniese, cioè Pericle, lo accetta, confidando nella propria superiorità navale e nell’abbondanza di riserve monetarie. Fa male i suoi calcoli, o perlomeno pecca di ottimismo, perché l’annuale devastazione dell’Attica operata dai lacedemoni oltre a mettere in ginocchio la produzione agricola (e i denari non si mangiano!) causa un sovraffollamento del centro urbano – e, come conseguenza, il divampare di un’epidemia incontrollabile.
Si parla comunemente di “peste” a proposito della malattia diffusasi nel 430 a.C., anche se i ricercatori moderni, rileggendo le descrizioni di Tucidide alla luce delle più recenti acquisizioni scientifiche, attribuiscono la responsabilità delle decine di migliaia di vittime al tifo o ad altre patologie. Poco importa quale sia stato l’agente patogeno, perché il quadro tracciato dal cronista dell’epoca è sovrapponibile a quelli lasciatici dai testimoni di analoghe successive morie: ignoranza completa sulle cause del morbo, incapacità della medicina di trovare rimedi, sbandamento della popolazione che precipita nella disperazione o nella dissolutezza. Anche Pericle soccombe, lasciando la città senza guida… eppure la celebre Guerra del Peloponneso da lui iniziata proseguirà per oltre due decenni in cui Atene sarà in grado di mettere in campo agguerrite squadre navali ed eserciti poderosi. Cosa significa questo? Che le istituzioni statali, pur scosse dalle fondamenta, reggono all’urto dell’imprevedibile pestilenza – che si esaurirà da sé, ma non subito – e mantengono il controllo sia sulle masse popolari che sulle città vassalle.
Gli ateniesi del V secolo dimostrano insomma di possedere quella “resilienza” di cui oggi va di moda parlare. E’ perché non temono la morte? Niente affatto: ne sono atterriti, e per questo bruciano in pochi giorni le ricchezze accumulate – ma a differenza nostra non la considerano qualcosa di intollerabile, vergognoso… quasi sconcio (si leggano su questo tema le acute e attualissime riflessioni di Massimo Fini). Vorrebbero vivere, ma sanno che omnibus moriendum est e perciò, superato a fatica l’iniziale smarrimento, tornano ciascuno a preoccuparsi del bene della patria in duplice pericolo.
La cosiddetta peste di Atene non ferma dunque il conflitto fra le due grandi potenze peninsulari. Seicento anni dopo un contagio d’incerta natura si diffonde tra i legionari impegnati nel Norico contro Quadi e Marcomanni e spegne l’imperatore Marco Aurelio: a esso probabilmente si lega la decisione dell’erede Commodo di concludere una pace svantaggiosa con i barbari, già sconfitti sul campo. Nei secoli successivi epidemie non meglio identificate decimeranno a più riprese la popolazione dell’impero, contribuendo al suo lento declino, ma è in epoca giustinianea (VI sec.) che il morbo si accanirà con più violenza sulle popolazioni, trovando un teste d’eccezione nello storico Procopio di Cesarea.
Stavolta si tratta effettivamente, a quanto risulta, di peste bubbonica e a essere particolarmente colpita è l’Italia, già sconvolta dalla Guerra gotica. Le descrizioni di Procopio sono impressionanti: gli effetti della malattia incurabile si sommano a quelli delle distruttive scorrerie condotte da barbari e bizantini e a una carestia che spopola letteralmente la penisola. Il clima del tempo è rigidissimo, i raccolti del tutto insufficienti ad alimentare un popolo in vertiginoso calo demografico – eppure anche questa volta il conflitto non si arresta e prosegue fino alla schiacciante vittoria degli eserciti costantinopolitani. Sembra quasi che il periodico esplodere di pestilenze sia in qualche modo “messo in conto” e influenzi relativamente la politica dei governi.
Fatalismo o cinico disinteresse per il destino dei sudditi? L’uno e l’altro, verosimilmente, ma anche un disprezzo della morte – propria e altrui – che oggi riscontriamo soltanto in aree del mondo che l’Occidente reputa incivili o peggio. La ragione dell’atteggiamento di quei nostri lontani antenati è abbastanza intuibile: mai come allora l’esistenza si presentava agli umani “solitaria, misera, meschina, brutale e breve” (per citare la famosa definizione di Hobbes, che visse più di novant’anni). La speranza nella resurrezione rende forse meno intollerabile una quotidianità da incubo, ma per molti la morte costituisce la liberazione da fame, fatica e paura.
Nel XIV secolo il panorama è ben diverso: l’evo oscuro è alle spalle, l’Europa è divenuta prospera e – nelle città più che altrove – agi e svaghi non mancano a chi maneggia denaro. La vita insomma “vale di più”, ma a Oriente si addensa una minaccia che presto tramortirà il Vecchio Continente e rimarrà per sempre impressa nella memoria collettiva. Nel suo saggio “La peste nera” (avvincente più di un romanzo) lo storico John Kelly ricostruisce evoluzione e cammino della pandemia, originatasi forse in Kirghizistan e portata in Europa dalle galere genovesi in fuga da Caffa, una colonia sul mar Nero assediata dai tartari.
Kelly ci racconta una storia stupefacente: visto che la yersinia pestis si è infiltrata nelle sue schiere, il condottiero mongolo anziché ritirarsi trasforma la disgrazia in opportunità e lancia con le catapulte brani di cadaveri infetti entro le mura ben difese. Gli italiani allora abbandonano in fretta la città e prendono il mare, ma il nemico invisibile – più spietato del duce con gli occhi a mandorla – è ormai in mezzo a loro.
Correva l’anno del Signore 1347.
La seconda parte verrà pubblicata sabato 25 settembre.