Dopo un biennio di assenza forzata, lo scorso novembre sono tornato a Roma per partecipare a un direttivo politico e, avendo la domenica libera, mi sono concesso una lunga passeggiata per le vie del centro sotto un cielo che si aggrottava sempre più. Sant’Ignazio, san Luigi dei Francesi: Caravaggio insomma… una sequela di acquazzoni e poi, prima di cena, l’immancabile visita alla libreria di Stazione Termini, reparto Storia. La ricerca è stata un tantino più complicata del solito: a un certo punto mi è apparso un volume solitario e un po’ stropicciato dal titolo “La grande rivolta illirica”. L’autore è un certo Jason R. Abdale: “laureato in Storia a New York dove vive” recitava la terza di copertina (dunque non uno storico di professione), ma il tema mi è sembrato stimolante e, fugate le titubanze iniziali, ho acquistato il volume assieme a un romanzo su Cesare.
Il libro vale i suoi ventidue euro: lo stile è efficace, la narrazione avvincente e appassionata. Mr. Abdale è “molto americano”: si pone di continuo domande cui prontamente risponde, chiarendo sempre – con molta onestà – che le sue sono mere ipotesi. L’opera è divisa in due parti: nella prima l’autore si sofferma sulla civiltà delle molteplici popolazioni genericamente denominate “illiriche”, indagandone usi e costumi. Scopriamo che nel territorio che moltissimi secoli dopo avrebbe assunto l’effimero nome di Jugoslavia già nel VI millennio a.C. (!), cioè in pieno neolitico, si lavorava il rame, ma che gli Illiri propriamente (o impropriamente?) detti arrivarono molto più tardi, verso la fine del II millennio. Sulla base di indizi piuttosto fragili (qualche notazione antica, le poche parole “sopravvissute” di una lingua ormai morta) Abdale opta per un’origine anatolica di queste genti variegate, per poi negare qualsiasi parentela con gli attuali albanesi: difficile però accettare l’idea che gli Illiri siano svaniti nel nulla, più ragionevole immaginare che, perduta ogni forma di indipendenza e identità nella koiné romana, si siano pian piano amalgamati con i coloni italici e, successivamente, con le popolazioni slave che nel corso dell’alto medioevo si stanziarono nella parte occidentale della penisola balcanica. L’intento del brillante “laureato in Storia” sembra soprattutto quello di ridare dignità a un popolo che, pur avendone (secondo lui) le potenzialità, non riuscì a diventare protagonista degli eventi né a costituire un abbozzo di “stato”, ed è perciò caduto nell’oblio – il tentativo, di per sé lodevole, mi sembra abbastanza riuscito, perché i ritrovamenti archeologici descritti attestano un grado di civiltà non inferiore a quello dei celti, negletti anch’essi, ma illuminati di sfuggita dalla storiografia greco-romana.
Nella seconda sezione del volume J. R. Abdale fornisce un resoconto dettagliato e puntuale della “grande rivolta illirica” che, a suo dire, minacciò l’esistenza stessa di Roma. Dopo aver sfatato il mito della pax augustea, in realtà un periodo di torbidi, conflitti e tensioni (questo almeno secondo l’autore, che sottolinea convincentemente la doppiezza e l’assenza di scrupoli di Ottaviano Augusto), il nostro narra gli antefatti della rivolta, ma sin dall’inizio si vede costretto ad assegnare il ruolo di attore principale a Tiberio Claudio Nerone, il futuro terzo imperatore. Nell’anno 6 d.C. Tiberio, stimatissimo generale, viene incaricato dal patrigno (le cui presunte imprese militari vengono nel libro lodate un po’ troppo…) di porre fine alla minaccia rappresentata da Maroboduo, un marcomanno capace di edificare un solido regno nell’odierna Boemia e di dotarsi di un esercito regolare di oltre 70 mila uomini strutturato sul modello romano. Marbod/Maroboduo, ex comandante di truppe ausiliarie e capace di esprimersi in un latino fluente, non è un nemico dichiarato dell’Urbe, ma neppure sembra disposto ad accontentarsi della posizione di sovrano-cliente assegnatagli da Augusto: è dunque un superbus da debellare.
Tiberio si mette all’opera, e pianifica come d’abitudine un attacco a tenaglia (da sud e da occidente) destinato a non lasciare scampo al germano. Il comandante in capo non è più un giovanotto: ormai prossimo ai cinquant’anni ha riconquistato grazie agli intrighi della madre Livia e soprattutto alla necessitas rerum il favore di Augusto, che non lo ama pur apprezzando il suo talento e la sua onestà. Anni prima Tiberio Nerone si era anche lui in qualche modo ribellato ai disegni del Divus, andandosene in volontario esilio a Rodi: è un uomo malinconico, introverso, disilluso, che non si sottrarrà però più ai suoi doveri. Per la guerra contro i Marcomanni allestisce un imponente esercito: l’autore del volume ripete più volte – e un po’ maliziosamente – che con gli anni il generale ha perso l’ardore della giovinezza ed è divenuto “prudente”. Può darsi, ma sin dagli esordi Tiberio si è meritato la fama di condottiero assennato, cauto, valoroso ma per nulla incline ad azioni temerarie – anche per questo i legionari confidano in lui, e lo stimano forse più di quanto lo amino. Non assomiglia insomma all’idolatrato fratello Druso, abile ma avventato – quanto ai dissapori (a venire) con il nipote Germanico essi sono (saranno) imputabili, più che alla diversità di carattere e al protagonismo del giovane, alla scarsa propensione del più anziano a rischiare in battaglia il tutto per tutto per brama di gloria. L’impero va conservato, non giocato ai dadi.
Tiberio rimane fedele alle sue concezioni militari, e non si è affatto rammollito: lo dimostreranno la conduzione della campagna illirica e, poco più tardi, le operazioni felicemente intraprese in Germania per mettere in sicurezza il confine dopo la disfatta di Varo a Teutoburgo. In sintesi Tiberio Claudio Nerone è uno che risolve i problemi anziché crearli, e il fatto che le folle prediligano da sempre i duci spavaldi e spericolati non sminuisce la sua grandezza, riconosciuta malvolentieri dallo stesso Augusto (che oltre a essere freddo e spietato era un eccellente conoscitore di uomini).
(La seconda parte verrà pubblicata sabato 11 novembre)