La Roma della prima metà del I° secolo a.C. (l’ultimo della Repubblica) abbonda di biografie di personaggi eccezionali, condannati all’oblio – o quasi – dalla contemporanea presenza sulla scena di Caio Mario, Silla, Pompeo e soprattutto Giulio Cesare, il fondatore dell’Impero.
Di Lucio Cornelio Cinna ho già trattato in questa rubrica, del guerrillero heroico Quinto Sertorio mi riservo di parlare in un’altra occasione; stavolta è il turno di Lucio Licinio Lucullo, passato alla Storia (e al lessico) come il buongustaio per eccellenza: per descrivere un pasto sontuoso adoperiamo oggi l’aggettivo “luculliano”. Non so se il nostro nobiluomo se la sarebbe presa a male o avrebbe ironicamente sorriso: di certo si sarebbe sentito un po’ sminuito dall’accostamento ai suoi celebrati banchetti.
Lucullo nasce intorno al 120 a.C. a Roma, rampollo di un’illustre, ricca e potentissima famiglia plebea, i Licinii. Fin da ragazzo dimostra un’ammirevole propensione per l’oratoria e le arti liberali, oltre che un affetto profondo – e pienamente ricambiato – per il fratello minore Marco: i due sono inseparabili, e il primogenito rallenterà di proposito il proprio cursus honorum pur di ricoprire assieme al consanguineo la carica di edile. Lucio Licinio è il prototipo dell’ottimate del tardo periodo repubblicano: coltissimo, imbevuto di cultura greca, sceglierà senza un attimo di esitazione di farsi partigiano di Silla per contrastare il “sovversivo” Caio Mario, capofazione dei populares. Nel corso della sanguinosa guerra civile il biondo Cornelio prenderà a benvolerlo, preferendolo all’ambizioso Pompeo e affidandogli la difesa della nuova costituzione aristocratica e l’educazione del proprio figlio: il vecchio reazionario apprezza il talento e la dirittura morale del seguace, per nulla incline alla piaggeria e agli intrighi politici. Lucio Lucullo ha un’altissima stima di sé, che traspare dai suoi ritratti marmorei: stempiato, ci presenta un volto dai tratti regolari ravvivati, sotto le sopracciglia aggrottate, da occhi fondi e penetranti.
Malgrado le benemerenze militari e la protezione del dittatore (morto però sessantenne nel 78 a.C.) la carriera politica di Lucio non è delle più rapide: la controriforma politica sillana ha vita breve e il fedele seguace assurge al consolato appena nel 74 a.C., all’età di 46 (per altri: 43) anni. Briga allora per ottenere come provincia consolare la Cilicia: non è certo il più ambito fra i territori assegnabili, ma Lucullo sa che l’indomabile re pontico Mitridate, contro il quale si è già scontrato con successo, medita una rivincita sui romani. Mitridate Eupatore (132-63 a.C.) è una personalità affascinante e sogna di regnare sull’ecumene senza averne le capacità e le risorse: sa radunare immensi eserciti e combattere da prode, ma gli fanno difetto senso della misura e visione strategica. Si rivela per l’Urbe un avversario più tenace che insidioso: le sue armate sono sempre state sopraffatte dalle legioni (e Silla ne ha fatto scempio), ma l’uomo è imprevedibile, attacca inaspettatamente e, con campagne fulminee, riesce ogni volta a distruggere distaccamenti e a soggiogare città; dispone inoltre di una numerosa flotta che, seppur poco efficiente, controlla il mare.
La terza guerra mitridatica inizia per Roma con uno scacco: Marco Aurelio Cotta, collega di Lucullo nel consolato, viene sconfitto dai pontici è costretto a chiudersi in Calcedonia – il sopraggiungere di Lucio Licinio sblocca tuttavia la situazione e, complice il diffondersi tra gli assedianti di una pestilenza, l’esercito di Mitridate è volto in fuga e quasi completamente distrutto. Seguono altri scontri, tutti favorevoli al duce romano nonostante egli abbia al suo seguito poche truppe: scornato, Mitridate è costretto a rifugiarsi in Armenia, dove viene accolto con qualche imbarazzo dal re Tigrane. Quest’ultimo è un potente sovrano, che non agogna però un confronto diretto con Roma e ha già respinto una proposta di alleanza formulata in precedenza dall’omologo pontico. Pur tributandogli onori Tigrane tiene in sostanziale semicattività l’ingombrante ospite, ma i romani pretendono di più: la sua immediata consegna. Appare evidente la volontà della Res publica di chiudere i conti con entrambi, perché il Gran Re armeno semplicemente non può venir meno al dovere di ospitalità e comportarsi da subalterno: ne va del suo prestigio. Di fatto egli viene indotto a muovere guerra a Roma. Chi è l’aggressore, in questo caso, chi l’aggredito? E’ una domanda non oziosa, visto che l’interrogativo si è posto infinite volte nella Storia e fino ai giorni nostri – e le risposte nette sono patrimonio dei propagandisti delle parti in contesa, non di storici e analisti. Lucullo invade l’Armenia, raggiungendo a tappe forzate la seconda capitale, Tigranocerta; il suo esercito è tuttavia numericamente debole (15 mila uomini circa), e il monarca orientale si illude di farne un sol boccone: secondo gli annalisti antichi la sola cavalleria pesante di cui poteva disporre sfiorava le cinquantamila unità, mentre i fanti sarebbero stati più di centomila. Si tratta sicuramente di esagerazioni, ma la sproporzione tra le forze in campo era enorme: il console tuttavia non si perde d’animo, e con mossa a sorpresa occupa un’altura rimasta sgombra, costringendo i cavalieri corazzati a un’infruttuosa carica in salita, indi ordina alle sue schiere di discendere rapidamente i pendii e cogliere alle spalle la massa di pedoni male armati imbottigliati nella pianura. Attaccati da tergo gli armeni si sbandano e tentano di fuggire in ogni direzione, travolgendo le forze montate: seguono una mattanza e l’annientamento di un’armata in apparenza imbattibile. Tigranocerta è una delle più clamorose vittorie della Storia romana, ma Lucullo non riesce a sfruttarla appieno. La colpa è solo indirettamente sua: i legionari, molti dei quali in servizio da lunghi anni, non sopportano la sua alterigia, la sua severità, la mancanza di empatia e l’ostentato filellenismo – soprattutto non gli perdonano il divieto di saccheggio (e di violenze sui civili) che egli ha impartito. In pratica Lucio Licinio si trova nell’impossibilità di proseguire una marcia assai promettente, con la conseguenza che l’Armenia rimarrà per anni una spina nel fianco di Roma e lo stesso Mitridate potrà giocarsi contro Pompeo le carte che gli restano. Scrive Theodor Mommsen a proposito dell’abile e sfortunato condottiero: “Egli era un buon generale e – giudicandolo come aristocratico – un uomo onesto e benevolo, ma non era affatto amato dai soldati. Egli era impopolare perché fautore deciso dell’oligarchia, e perché nell’Asia minore aveva messo energicamente un freno alle orribili usure dei capitalisti romani; impopolare perché teneva sotto severa disciplina i suoi soldati e impediva, per quanto era possibile, il saccheggio delle città greche (…). Non era in lui nemmeno una parte di quell’arte magica che stringe personalmente il supremo duce al semplice soldato” che non era più – merita aggiungere – un piccolo proprietario in armi animato da spirito patriottico, bensì, dopo la riforma mariana, un proletario squattrinato che si arruolava per percepire uno stipendio.
Potremmo concludere che Lucullo fu vittima delle sue virtù più che dei suoi vizi, oltre che dei tempi nuovi, e il burrascoso passaggio di consegne con il successore Gneo Pompeo – politicamente assai più accorto di lui, e sempre alla guida di grandi contingenti militari – fu la sua ultima cocente delusione in terra asiatica.
Pur essendo stato sempre vittorioso sul campo Lucio Licinio torna a Roma da sconfitto: nel 63 a.C. il console Cicerone, oramai accostatosi al partito aristocratico, gli concederà il meritato trionfo per le sue campagne, ma il successivo tentativo di opporsi a Cesare costerà all’invecchiato ottimate una pubblica umiliazione descrittaci da Svetonio. Lucullo si ritira così dalla vita politica per dedicarsi alle proverbiali cene che l’hanno reso “immortale”, ma soprattutto allo studio della filosofia e alla stesura di testi storici. Muore a più di sessant’anni in una villa presso Napoli: alcuni affermano che prima della fine egli sia scivolato nella demenza, altri imputano la sua scomparsa a un filtro d’amore propinatogli da uno schiavo (greco, si immagina).
Lucio Licinio Lucullo fu uno degli ultimi degni rappresentanti di una classe sociale che aveva retto il potere per secoli, ma andava inesorabilmente corrompendosi e perdendo vigore: era ormai venuto il turno degli homines novi, capaci di destreggiarsi abilmente fra i “partiti” in lotta e di stringere alleanze personali anche a detrimento del ceto di appartenenza. Il restauratore Silla l’aveva previsto: per questo diffidava di Pompeo e Crasso e aveva tentato di eliminare l’ancor giovanissimo Giulio Cesare (in cui aveva intravisto “molti Marii”).
Nessuno tuttavia può arrestare il moto turbinoso della Storia.