Nell’estate del 1944, il progressivo avanzamento dell’attacco concentrico che le forze armate sovietiche da est e le forze armate “alleate” da sud-ovest avevano portato al Terzo Reich tedesco, faceva presagire che ben presto i confini della Germania sarebbero stati violati.
Come già era avvenuto in Italia, anche in Germania l’andamento della Seconda guerra mondiale – in particolare, la disastrosa conduzione della campagna di Russia – era motivo per l’emersione di dissidi all’interno delle gerarchie politico-militari. Nello specifico, i malumori affioravano rispetto alla suicida ostinazione di Adolf Hitler, puntata nell’irrazionale proposito di proseguire uno sforzo bellico in cui venivano immolate tutte le residue risorse umane e materiali del Paese.
Sin dal 1938 il Führer impersonava il vertice della Wehrmacht. Sulla carta, la pianificazione strategica del conflitto era gestita direttamente da Hitler, mentre la pianificazione operativa rimaneva di spettanza all’Oberkommando der Wehrmacht (l’Alto comando delle Forze armate) il quale, però, finiva spesso per assecondare i desideri del Capo.
In aggiunta, sul piano più generale, il 1938 fu l’anno in cui Hitler prese le distanze dai rappresentanti delle elites tradizionali e, compiendo un ulteriore passo verso un regime pienamente totalitario, vennero da egli espunte le residue forme di “coordinamento governativo”, per essere sostituite da deleghe di potere caratterizzate da un forte legame fiduciario. In questo quadro, un ruolo speciale era quello assegnato alle famigerate SS (Schutzstaffel o Squadre di sicurezza) di Heinrich Himmler, il corpo speciale che finì per assorbire la Polizia di stato e che, di lì a poco, sarebbe stato protagonista dell’organizzazione della “soluzione finale”.
Alla fine del 1941 non erano stati raggiunti gli obiettivi prefissati della campagna di Russia e Hitler aveva sostituito i generali Leeb con Kuechler, Bock con Kluge e Rundstedt con Reichenau. Kluge e Reichenau, alla 4a e alla 6a armata, furono poi rimpiazzati da Kubler e Paulus.
Così, in tale fase di svolgimento dell’”Operazione Barbarossa”, il Fuhrer aveva deciso di accentrare maggiormente su di sè il comando generale delle operazioni belliche. Emblematica al riguardo era stata la rottura di Hitler con Heinz Guderian (il protagonista della precedente lunga sequela di strepitose vittorie “lampo”), con il relativo licenziamento di quest’ultimo. Guderian si era trovato più volte in contrasto con Hitler, non condividendone le direttive.
Che Hitler non avrebbe mai accondisceso a trattative o a rese, lo si era già compreso durante la sanguinosissima invasione del territorio sovietico. Nell’imminenza della sconfitta di Stalingrado, il capo supremo del Reich aveva rivolto al generale Friedrich Wilhelm Ernst Paulus, posto a capo della 6a armata, un’invito indiretto al suicidio piuttosto che rassegnarsi a cadere prigioniero dei russi.
Dal 24 giugno 1941 il dittatore nazista aveva stabilito a Rastenburg, nella Prussia orientale (attuale Polonia), il suo quartier generale. (Detto Wolfschanze o la Tana del lupo). Lì teneva frequenti riunioni con i generali dell’Alto comando delle Forze armate e da lì emanava ordini sempre più sconsiderati e deliranti, ormai sempre più avulsi dalla realtà delle forze in campo. A un certo punto, il Fuhrer era rimasto attorniato soltanto da coloro che si mostravano pienamente accondiscendenti. Dietro le quinte, però, alcuni malumori associati alla percezione dell’imminente catastrofe si stavano facendo sempre più concreti.
La resistenza tedesca al Nazismo non fu un movimento di massa. Dopo l’avvento al potere di Hitler – 30 gennaio del 1933 –, i partiti socialisti, comunisti e i circoli sindacali vennero ben presto costretti alla clandestinità, e poi costantemente attaccati e repressi con la forza. (Insieme all’antisemitismo, una violenta propaganda antisindacale e anticomunista avevano accompaganto, del resto, l’ascesa del movimento nazista). Dopo il varo della Legge dei pieni poteri, in occasione delle elezioni generali del novembre 1933 era rimasto in lizza il solo partito Nazionalsocialista. (La repressione politica non aveva risparmiato neanche socialdemocratici, liberali e la stessa destra nazionalistica).
La resistenza si caratterizzò per essere costituita e portata avanti da gruppi relativamente ristretti e isolati (fra i quali, oltre all’Orchestra rossa, quello di ambiente “ecclesiastico” al quale prese parte il teologo protestante Dietrich Bonhoffer e il gruppo studentesco della “Rosa Bianca”) e concretizzò la sua azione prevalentemente nella forma del complottismo. Il Führer del Terzo Reich era stato bersaglio di diversi attentati, talvolta concepiti e messi in pratica da singoli individui, ma questi erano sempre falliti per cause fortuite o per imperizia degli artefici.
La più seria minaccia alla vita di Hitler e allo stesso regime nazista venne dall’organizzazione di un’ampia cospirazione maturata negli ambienti militari. A capo di essa vi fu il colonnello Claus Schenk von Stauffenberg. Questi, oltre che il principale artefice della congiura, fu l’autore materiale dell’attentato che da essa scaturì. Nato nel 1907 in una famiglia aristocratica, Stauffenberg era un ufficiale che, seguendo la tradizione di famiglia, aveva intrapreso a 19 anni la carriera militare. Era di religione cattolica e aveva antenati che, in qualità di alti ufficiali, avevano servito nell’esercito prussiano. Come molti ufficiali dell’esercito tedesco di alto lignaggio, Stauffenberg non fu un nazionalsocialista convinto ma, al pari di tutti i militari tedeschi, era tenuto al giuramento di fedeltà assoluta al Führer. (Che era invece, come si sa, di umili origini).
Ferito sia moralmente che fisicamente dalla follia bellica nazista (in nord Africa, nel corso di un attacco aereo britannico aveva subito la perdita della mano destra, dell’occhio sinistro e di due dita della mano sinistra), Stauffenberg venne promosso colonnello nell’ottobre del 1943 e destinato allo Stato Maggiore della riserva, sotto il generale Friedrich Olbricht. Olbricht figura anch’egli fra i cospiratori e a lui si deve il piano – chiamato Operazione Valchiria – concepito contro eventuali rivolte interne.
L’esercito della riserva nazionale, con a capo Friedrich Fromm, era appunto chiamato alla mobilitazione in caso si verificasse un colpo di stato o un insurrezione che minacciasse il regime nazista. Nell’ottica preparatoria del programma rivolto al rovesciamento del regime hitleriano, questo fu un elemento fondamentale. Oltre a Stauffenberg, si possono citare come facenti parte del complotto il borgomastro di Lipsia Carl Goerderer, l’ex capo di stato maggiore generale Ludwig Beck, il generale Henning von Tresckow, l’ex ministro Hjalmar Schacht, il capo del servizio segreto Wilhelm Canaris.
Il tirannicidio doveva, in effetti, apparire come l’unica possibilità per liberare la Germania dal giogo del Nazismo. A differenza di Mussolini, che il 25 luglio dell’anno precedente – dopo un voto ad egli avverso del Gran Consiglio del Fascismo – era stato destituito per via di una manovra ordita da ambienti monarchici e militari (protagonisti il re Vittorio Emanuele III e il maresciallo Badoglio), Hitler aveva concentrato nella sua persona tutte le maggiori cariche istituzionali e militari. Nel regime nazista non vigeva alcuna forma di “separazione” dei poteri. La fonte del potere era rappresentata dal carisma del capo supremo.
Subito dopo la soppressione fisica di Hitler, il piano prevedeva un colpo di stato con l’occupazione, da parte della riserva militare controllata da Stauffenberg e Olbricht, degli organi nevralgici del potere – come la sede del governo e il ministero degli interni – e con l’arresto dei vertici delle già citate SS (le Schutzstaffel, ossia le milizie di protezione del Fuhrer). L’ocasione era data dal fatto che, in qualità di Capo di stato maggiore dell’esercito di riserva, Stauffenberg aveva accesso alle periodiche riunioni militari indette dal Führer.
La mattina del 20 luglio 1944 Stauffenberg si presentò al quartiere generale di Rastenburg con due ordigni esplosivi nascosti in una borsa portadocumenti. Quel giorno, l’orario della riunione era stato anticipato di mezz’ora e, a causa del clima caldo, la stessa era stata spostata in una sala con pareti di legno, quindi leggere. L’artefice del complotto riuscì ugualmente, nascosto in bagno – rocambolescamente e in tutta fretta –, ad azionare il dispositivo di innesco di una delle due cariche di esplosivo che aveva con sè. Quando entrò in sala, il Führer e gli alti ufficiali erano disposti intorno a un massiccio tavolo di quercia al centro della stanza. Stauffenberg chiese di potersi posizionare a pochi passi da Hitler.
Depositò la borsa con l’esplosivo sotto il tavolo. Poco dopo, si allontanò dal locale con una scusa. Erano passati pochi minuti dall’innesco dell’ordigno che egli aveva opportunamente lasciato sotto il tavolo, accanto alla vittima segnata. Vide e udì dall’esterno la deflagrazione. Pensò che Hitler fosse rimasto ucciso. Tornò così precipitosamente a Berlino per dare avvio alla seconda fase del piano, l’”Operazione Valchiria”.
L’attentato provocò, in effetti, quattro morti e vari feriti, ma per varie circostanze fortuite il capo del Nazismo sfuggì ancora una volta alla morte. Le pareti di legno, crollando, avevano consentito un certo sfogo all’energia sprigionata dall’ordigno e la borsa di Stauffenberg era stata inconsapevolmente spostata, da un ufficiale, rispetto alla posizione in cui l’attentatore l’aveva lasciata.
L’eliminazione del capo nazista era essenziale per la riuscita dell’operazione. Uno dei capisaldi del Nazismo era la fedeltà dei seguaci, resa tramite solenne giuramento, alla persona del Fuhrer. Alla notizia, diffusa via radio, dell’incolumità di Hitler dopo la detonazione, la fedeltà delle gerarchie militari che non avevano preso parte al complotto prevalse. La messa in pratica del colpo di stato, che avrebbe dovuto neutralizzare le SS e portare al governo il potere militare “tradizionale”, a causa di indugi e ritardi non era stata completata. Il maggiore Otto Ernst Remer, che avrebbe dovuto arrestare il Ministro Joseph Goebbels, si fermò appena venne messo in contatto con Hitler al telefono.
La ritorsione fu immediata. Gli arresti furono fulminei. Nelle prime ore del 21 luglio, nel cortile dell’Alto comando delle Forze armate, Stauffenberg e altri congiurati vennero fucilati. Altri si suicidarono o furono indotti a farlo, come il generale Erwin Rommel (la celebrata “volpe del deserto”). Goerdeler e Tresckow furono arrestati e quindi impiccati. La repressione proseguì nei mesi successivi e sfociò in migliaia di condanne a morte. Il regime nazista sopravvisse fino al termine dell’avventura terrena di Adolf Hitler, suicidatosi il 30 Aprile dell’anno seguente. La resa della Germania venne siglata il 7 Maggio da parte dell’ammiraglio Karl Doenitz.
Quella culminata nel tentativo di assassinare Hitler il 20 luglio 1944 fu una tardiva resistenza, di matrice aristocratico-conservatrice, al Nazismo. I fini e i valori dei suoi attori andavano dal salvataggio della patria dall’invasione fino a motivi umanitari, come il disprezzo nei confronti degli eccidi di cui il Nazismo si macchiò e l’inane sacrificio di connazionali che Hitler stava pretendendo dalla popolazione tedesca.
Anche se le sue ragioni profonde non sono riconducibili a valori autenticamente democratici e a prospettive di sbocco della fase bellica in una qualche forma di edificazione della sovranità popolare, la finalità di porre fine all’orrore del Nazismo, – connotato dall’olocausto –, dalle esecuzioni di massa dei civili nei territori occupati e dall’esaltazione sacrale della razza come arma ideologica per giustificarle, va senz’altro sottolineata.
Se l’intento di eliminare Hitler fosse andato a segno, la chiusura anticipata delle ostilità avrebbe risparmiato innumerevoli vite umane. La figura tragica di Stauffenberg merita comunque di essere ricordata. Le fondamenta del suo quadro etico di riferimento dovettero essere scosse da un dissidio al cui culmine la tensione verso il riscatto morale finì per imporsi. Il tradimento del giuramento al regime che aveva il dovere di servire contro il tradimento della propria coscienza.
Inizialmente, egli non avversò attivamente il Nazismo. I primi successi e gli obiettivi di grandezza della Germania si riverberavano anche nel prestigio della Wehrmacht, adulando il profondo senso dell’onore che informava il tradizionale bagaglio valoriale degli ufficiali tedeschi. Il sopravvento delle motivazioni morali nella coscienza di Stauffenberg dovette essere graduale. Un risultato comunque non trascurabile, immensamente avvalorato dal fatto che ebbe l’ardimento di vincere l’inerzia e di portare le sue convinzioni fino alle estreme conseguenze.