Quella di Francesco d’Assisi è una figura che ci è familiare sin dalla prima infanzia: il fraticello che dialoga con gli uccelli e ammansisce il lupo è l’icona di un cristianesimo ideale e perciò – in fondo – mai esistito. Poeta e predicatore, ma soprattutto esempio di condotta: ascetico fin quasi al masochismo (la pratica dell’autopunizione era diffusissima all’epoca tra i fedeli), non si estraniò tuttavia dal mondo asserragliandosi in un monastero o in una cella. C’è un tempo per contemplare Dio e un tempo per operare concretamente in mezzo agli uomini: con indosso la sua tunica sbrindellata Francesco non esita a presentarsi dinanzi al sultano, esortandolo ad abbracciare (quella che per lui era) la vera fede, e la sua ingenua, appassionata oratoria fa breccia. Amato dai moderni ecologisti, che scorgono in lui quasi un precursore, si spogliò di ogni suo bene – ma non pretese altrettanto dai propri simili, eccezion fatta per i seguaci votati all’estrema povertà. È anche per questo che, fugate le iniziali perplessità, la Chiesa romana lo accoglie ben presto nel suo seno.
Anche, ma non solo: l’Assisiate “si batte” per una società meno materialista, cementata dalla fraternità, ma non coltiva propositi rivoluzionari – e mai mette in discussione l’autorità del Papa e dell’alto clero, verso i quali ostenta filiale deferenza. Non stupisce allora che Innocenzo III, politico finissimo, intravveda in Francesco (e nel coevo S. Domenico) il provvidenziale puntello di una chiesa che ha di fatto rinnegato i valori originari, e ne approvi soddisfatto la regola. Al di là dell’indiscussa “santità” individuale, che assai poco interessa a chi regge uno stato, il frate umbro diviene una foglia di fico dietro cui nascondere interessi e sozzure, e sarà più la ferrea obbedienza al papato che la personale virtù a farne il Patrono d’Italia e, nei secoli, un personaggio celebrato dalle istituzioni.
Non tutti i suoi discepoli mostreranno però altrettanta docilità nei confronti del potere. Il parmigiano Segarelli, ad esempio, fonderà la setta degli Apostoli (seconda metà del Duecento) che, pur senza opporsi frontalmente a Roma, condannava la proprietà privata ed ammetteva il libero amore fra uomo e donna, a patto che “vi sia l’intenzione di pervenire alla perfezione”. Anticipando Thomas Müntzer, quest’uomo mite e inoffensivo osò affermare che il rapporto tra uomo e Dio poteva instaurarsi senza la mediazione dei chierici. Era troppo: il crimen maiestatis gli costò il rogo. Prese allora il suo posto un novarese di ben altra tempra: della giovinezza di Dolcino sappiamo ben poco, ma non vi sono incertezze sul fatto che fosse persona colta e coerente. Doveva essere anche un formidabile oratore, perché ben presto raccolse intorno a sé un folto gruppo di seguaci – compresa una donna, la nobile e bellissima Margherita, che divenne sua compagna ed alter ego.
La Storia Popolare d’Italia di Oscar Pio (1872), che lessi da bimbo, dedica loro appena quattro righe, ma l’autore precisa che “predicavano nei dintorni di Novara, togliendo ogni distinzione fra i sessi, e permettendo lo spergiuro verso gli inquisitori”. In parole povere non riconoscevano l’autorità della Chiesa: questo bastava a farne hostes publici, e non a caso Dante – un membro dell’élite economico-sociale – riserva nella sua Commedia un posto all’Inferno al presunto frate. La citazione è significativa: prima di essere cancellato dalla Storia l’indomito Dolcino fece paura, molta paura. A differenza di Segarelli (e a somiglianza di Müntzer) il novarese non dimostrò alcuna ritrosia ad impugnare la spada: l’amore per i poveri, che lo seguivano a frotte, era controbilanciato dall’odio per i ricchi, prelati in primis. Vilipeso e perseguitato si prese con i suoi accoliti non poche sanguinose rivincite: prima che in Turingia, il “gallo rosso” (cioè il rogo di castelli e abbazie) cantò nell’Italia settentrionale. Siamo agli inizi del Trecento, il secolo delle rivolte contadine: a contraddistinguere la lotta dei dolciniani è la presenza di un capo indiscusso e venerato, e di quella che oggi definiremmo una “ideologia”. L’egualitarismo del novarese, il suo pugnace ripudio di proprietà e “sacrosanto” classismo gli cattivarono le simpatie dei poveri montanari della Val Sesia, ma la reazione era come sempre in agguato: l’ultimo rifugio degli Apostoli fu il monte Rubello, nel nord del Piemonte. In una fredda giornata di dicembre di due anni orsono ho percorso un breve tratto del sentiero di Dolcino, prima di arrendermi a neve e vento.
Nel Trecento il clima era assai più rigido di quanto non sia oggi: il pensiero di quella misera turba malvestita in balia di un interminabile inverno riesce insopportabile all’uomo d’oggi, abituato alle comodità. Il 23 marzo del 1307 (è il giorno del mio compleanno, ma allora si era nella settimana di Pasqua) il vescovo di Vercelli ordinò l’attacco generale: i sopravvissuti resistettero con disperato valore, ma furono ben presto sterminati. A quanto ci raccontano, Fra Dolcino da Novara vide l’adorata compagna bruciare sul rogo: le sue ultime parole furono di incoraggiamento per colei che stimava sua pari, le tenaglie del boia riuscirono a cavargli soltanto un gemito prima che anche il suo corpo fosse avvolto dalle fiamme. Gioirono i benpensanti, non pianse l’abile facitore di endecasillabi che pitoccava rancoroso il favore di rozzi e sanguinari signori feudali.
Nell’Ottocento si volle omaggiare Dolcino come “protosocialista”: oggi gli storici ridono di queste etichette – e fanno male, rivelando conformismo e miopia. Non v’è dubbio che tanto il Socialismo scientifico quanto le c.d. utopie che l’hanno immediatamente preceduto siano figli dell’Illuminismo e della Rivoluzione industriale, ma Marx ci ha insegnato che l’uomo è plasmato dal suo tempo, e dunque in epoca medievale un’idea rivoluzionaria, un afflato egualitario non potevano che assumere la veste del millenarismo, dal momento che la Chiesa rivestiva un ruolo paragonabile a quello dell’odierno totalitarismo neoliberista, controllando sia le azioni che le coscienze.
Potremmo concludere che per assurgere alla gloria degli altari (pure di quelli laici) una buona dose di conformismo è indispensabile: chi, essendone sprovvisto, anela a cambiare il mondo di regola viene schiacciato – ma ciò non implica che sia sempre insensato tentare.