Il rovescio patito sulle sponde del Ticino conferma ai quiriti che il loro avversario è tosto, ma la sconfitta è ampiamente rimediabile e un secondo esercito consolare muove per intercettare i “cartaginesi” (che sono in gran parte iberici e libi). Lo scontro avviene su un altro affluente del fiume Po – la Trebbia – e stavolta impegna le due armate al completo. In quell’umida e nebbiosa giornata di novembre rifulge agli occhi sbigottiti dei legionari il genio militare di Annibale: egli dà ordine al fratello Magone di acquattarsi con un migliaio di cavalieri in mezzo alla vegetazione che cresce lungo la riva, poi provoca i romani a battaglia e, alla loro reazione, precipitosamente si ritira.
Imbaldanzito il console comanda ai suoi di guadare la Trebbia gonfia d’acqua, ed è a questo punto che la trappola scatta: le schiere annibaliche ingaggiano coloro che – intirizziti e scompaginati – hanno guadagnato il lungofiume, mentre nugoli di frecce e lance si abbattono su quanti sono ancora impegnati nell’attraversamento. L’apparizione “dal nulla” di Magone coi numidi determina il si salvi chi può: i romani scappano in disordine, ma una buona metà del loro contingente rimane sul terreno (o viene trascinata via dalla corrente). Questa volta si può parlare di disastro, perché la notizia infiamma il settentrione: i celti insorgono ovunque, ricacciando a sud i conquistatori venuti dal Lazio.
Anche Annibale inizia a scendere lungo la penisola e il Senato corre ai ripari, affidando il comando a un uomo inviso all’élite, ma dall’ineccepibile passato militare: Caio Flaminio, già trionfatore sui cisalpini. La caccia ha inizio, ma è la presunta preda cartaginese a dettare tempi e mosse, lasciandosi inseguire fin quasi al lago Trasimeno – nel cuore del dominio romano – per poi improvvisamente… svanire. Impaziente di stanare il nemico, che ha evidentemente ceduto alla paura, il nuovo console decide di non attendere il collega e fa marciare il proprio esercito sulla riva del lago, in una strettoia fra l’acqua e le colline. Errore marchiano, ma provocato. Proprio dai colli arriva l’attacco, al materializzarsi dell’armata africana: ogni via di fuga è tagliata, ai legionari e al loro presuntuoso duce non resta che morire (con onore). I rinforzi giungono in tempo solo per farsi sbaragliare.
L’abbinamento dell’aggettivo “provocato” al termine errore non è un lapsus, e ci riporta all’espressione liviana: come interpretare quella “perfidia plus quam punica” che tanto indignò (e spaventò) gli avversari di Annibale? Potremmo tradurla con sistematico rifiuto di seguire le regole che i romani pretendevano valide e cogenti sul campo di battaglia – regole che prevedevano un brutale cozzo a viso aperto tra due masse umane in cui a far la differenza erano, più che il numero, organizzazione e disciplina. Imboscate, manovre elusive e stratagemmi in generale (di derivazione greca) non erano contemplati fra le opzioni: presto Roma sarà capace di produrre un allievo all’altezza del maestro, ma in questa prima fase appare indifesa e spaurita – ecco spiegata la rabbia, frammista a timor panico, nei confronti di chi “gioca sporco”.
In attesa di escogitare soluzioni vincenti si ricorre al buon senso: visto che il nemico non ha ancora palesato punti deboli è opportuno tenere il campo senza però rischiare lo scontro. Proclamato dittatore, Quinto Fabio Massimo è il coscienzioso interprete di una strategia prescritta dalla necessità: fronteggia Annibale da lontano e in un’occasione interviene per salvare il proprio vice che sta andando temerariamente incontro a sicura rovina. Entrambi gli avversari adottano la tattica della terra bruciata: quasi un assaggio di ciò che, nel quindicennio successivo, assurgerà a tragica regola nel Mezzogiorno d’Italia.
Alla lunga però la prudenza del “Temporeggiatore” viene in uggia ai romani: al suo esercito intatto possono aggiungere nuove leve, e la memoria delle disfatte subite sbiadisce col trascorrere di mesi ed anni. Si appronta un’armata senza precedenti, di forse 80 mila uomini: Annibale e la sua truppa esigua e raccogliticcia non avranno scampo. Lungi dall’impaurirsi il condottiero cartaginese esulta: ha finalmente l’occasione per chiudere la partita, anche se è conscio che contro un nemico di simili proporzioni il minimo errore o disattenzione gli risulterebbe fatale.
A Canne, nel nord della Puglia, le legioni romane innestano il “pilota automatico” e avanzano come uno schiacciasassi, ma anziché lasciarsi calpestare il velo di truppe che hanno di fronte flettendosi le attira in una sorta di imbuto, mentre le ali dello schieramento cartaginese inesorabilmente avvolgono i romani. Aggrediti sui lati e poi da tergo dalla cavalleria numidica i legionari rimangono schiacciati gli uni contro gli altri, e vittime del loro stesso numero si offrono inermi al macello. La cifra dei caduti è spaventosa, anche se il contemporaneo Polibio certamente esagera parlando di 70 mila: l’affermazione del Barcide è talmente schiacciante che un sottordine qual è il numida Maarbale si permetterà, finita la conta, di suggerire al duce vittorioso la mossa seguente, e di rampognarlo poi per aver rigettato la proposta.
Davvero Roma poteva, in quel frangente, esser presa d’assalto? Annibale ritenne di no, ed è assurdo accusare di irresolutezza un uomo che, poche ore prima, si era giocato tutto in un duello che, considerata la disparità di forze, pareva perso in partenza. Il gesto cavalleresco di dar sepoltura alla salma del console Emilio Paolo perito in battaglia è forse parzialmente frutto di un calcolo politico: un segnale di distensione verso una potenza ostile che – ribadiamolo – il figlio di Amilcare aveva in animo non di cancellare dalla Storia (come poi i romani fecero con la sua patria) ma di ridurre a più miti consigli.
Visto che il ramoscello d’ulivo fu sprezzantemente rifiutato dovremmo forse concludere che male fece il condottiero a non dar retta al suo subalterno: così la pensavano anche gli storici dell’epoca – dal rilievo concesso a quello scambio di battute trapela il sollievo per lo scampato pericolo. Può darsi che Annibale abbia sottostimato la tenacia degli avversari e la loro capacità di resistenza: quest’errore di valutazione unito alla coscienza di non padroneggiare a dovere la tecnica dell’assedio può aver ispirato una scelta che, vista col senno di poi, si appalesa drammaticamente sbagliata.
E dopo Canne che accade? A leggere i manuali delle superiori poco o nulla: un inconcludente peregrinare per il meridione durato annorum, finché, costretto al rientro, un Annibale invecchiato e infiacchito dagli “ozi di Capua” si farà battere sonoramente (a Zama) da Scipione iunior come un qualunque mediocre capitano cartaginese.
Strano però che a distanza di lustri – e ancora attivissimo – il Barcide abbia dichiarato che Zama (non Canne) era stata il suo capolavoro militare, e che a conflitto appena terminato un uomo descrittoci come sfibrato e deluso abbia immaginato di poter riformare le istituzioni di Cartagine… e sia pure riuscito nell’impresa! Inoltre fra il trionfo pugliese e il disastro africano trascorrono ben quattordici anni: come far combaciare l’idea di una torpida, prolungata inerzia con il ritratto abbozzato da Tito Livio?
(La terza parte uscirà sabato 28 novembre)