Al pari dell’ormai desueto “socialsciovinista” l’epiteto “rossobruno” viene adoperato con valenza più diffamatoria che descrittiva: non indica specificamente, infatti, il fautore di una relativa eguaglianza di diritti fra i membri della propria comunità nazionale (magari a detrimento degli appartenenti ad altre etnie) bensì, affatto genericamente, chiunque nella realtà odierna si azzardi a criticare la “sinistra” dei buoni sentimenti e delle buone maniere.
E’ un marchio d’infamia che risparmia all’accusatore – non sempre in buona fede – l’alea di un cimento dialettico in cui potrebbe anche soccombere: inevitabile il parallelismo con termini oggi di moda come “complottista” e “negazionista”, largamente impiegati per tacitare chi esprime riserve sulle ottime intenzioni dell’élite governante o quanti, pur senza minimizzare la gravità dell’epidemia in corso, dubitano dell’attendibilità di certe cifre e della trasparenza delle decisioni assunte… oltre che dell’imminenza della fine del mondo.
La differenza risiede nel fatto che la taccia di complottista o negazionista elargita dall’informazione mainstream procura la disistima generale, quella di rossobruno l’astio di un piccolo universo nostalgico in via di estinzione. Al di là degli artifici dialettici – e ben prima della loro diffusione come mezzo (poco cavalleresco) di lotta politica – c’è stata tuttavia un’epoca in cui rossobruni autentici sono esistiti sul serio, ed hanno pure contato qualcosa. Patria del Socialismo c.d. scientifico la Germania lo è stata anche dei suoi avversari più agguerriti ed insidiosi, perché capaci di mimesi.
Eugen Dühring e i ben ammanicati “socialisti della cattedra” fecero – chi consapevolmente, chi meno – efficace opera di disinformazione e lo stesso si può dire di Oswald Spengler, il cui “Socialismo Prussiano” è un fumoso, ma raffinato miscuglio di misticismo, velleità espansionistiche e disciplina militaresca che con l’aborrito marxismo non ha nulla in comune: ad attrarre gli operai tedeschi dopo la disfatta della prima guerra mondiale furono però ideologie più rozze e terra terra, che avevano il pregio di poter essere interiorizzate senza bisogno di troppe riflessioni.
Il ferroviere Anton Drexler si proclamava socialista ma, da buon patriota, era irriducibilmente ostile alle potenze dell’Intesa oltre che al capitalismo sfruttatore. Fin qui nulla di eclatante, visto che i socialdemocratici avevano votato in massa, al Reichstag, i crediti di guerra: la particolarità stava nel fatto che Drexler identificava i capitalisti con gli ebrei e riversava il suo odio “di classe” su questi ultimi. Malanimo antico in una veste nuova: siamo di fronte a una caricatura “su base etnica” del marxismo non adatta ai palati fini, ma in grado di suscitare il consenso di gente disperata.
Il problema è che, a guerra persa, di partitelli come il DAP ce n’erano parecchi e alle riunioni nell’Hofbräukeller di Monaco partecipava sì e no qualche decina di persone (ironia della sorte sembra un’istantanea delle assemblee delle sinistre “radicali” odierne…). Il programma politico non era granché diverso da quello dei coevi Fasci da combattimento, e tra un boccale e l’altro le discussioni andavano per le lunghe. Caso volle che a una di queste riunioni si presentasse un reduce di guerra dall’animo inquieto (ed inquietante) – anzi, non esattamente il caso perché ad inviarcelo come osservatore era stato l’esercito di cui il caporale Adolf Hitler da Braunau faceva ancora parte.
L’impressione non fu esaltante, ma in quel gruppo di operai esasperati il trentenne austriaco, che avrebbe presto rivelato un fiuto politico di prim’ordine, intravide un’occasione per emergere. Divenne assiduo a quegli incontri e iniziò a intervenire, suscitando entusiasmo e ammirazione. Scalò in fretta le gerarchie del partito, che mutò nome in NSDAP (Partito nazionalsocialista degli operai/lavoratori tedeschi). A cambiare non fu soltanto la sigla, ma pure l’impostazione: a Hitler i proletari servivano come massa di manovra, ma gli interlocutori che preferiva erano alti ufficiali e grandi imprenditori. Si legò pertanto al feldmaresciallo Ludendorff insieme al quale mise in scena il fallimentare “Putsch della birreria”, che gli costò meno di un anno di detenzione: a conti fatti un buon affare, poiché acquisì una notevole popolarità fra i nazionalisti e in carcere ebbe tempo e modo di “schiarirsi le idee” e scrivere il Mein Kampf.
Il Partito nazionalsocialista non rimase però privo di guida, perché ad assumere una sorta di reggenza fu un farmacista bavarese che si era battuto eroicamente in guerra. Nato nell’incantevole città di Landshut Gregor Strasser diede una dimensione nazionale a un movimento che fino ad allora non era uscito dai confini della Baviera, segnalandosi per abilità oratoria, talento organizzativo e sincera passione politica: per finanziare il partito non esitò a ipotecare la propria farmacia.
Nella sua monumentale “Storia del III Reich” William Shirer gli dedica non poche pagine, e il ritratto che ne fa Joachim Fest tradisce una larvata simpatia del grande storico nei confronti del personaggio: “Uomo di aspetto rude e massiccio, e tuttavia di animo sensibile, che non rifuggiva dalle risse da osteria ma leggeva Omero nella lingua originale e sembrava insomma incarnare in pieno il cliché del sanguigno notabile di provincia bavarese, Strasser era un personaggio tutt’altro che insignificante (…) non poteva certo andar d’accordo con Hitler, freddo, nevrastenico, contorto, e il cui aspetto fisico, allo stesso modo del frenetico demonismo di cui era preda, infastidiva Strasser non meno del suo famigerato, servile entourage (J. FEST, Hitler, pag. 279)”. Aggiunge lo studioso che il concetto di nazionalsocialismo, “ancora affatto indefinito”, si prestava alle più varie interpretazioni e Gregor ne adottò una che l’avrebbe inevitabilmente messo in rotta di collisione col futuro Führer: semplificando all’eccesso possiamo dire che Strasser e suo fratello Otto, abile ideologo e propagandista, anteposero l’aggettivo socialista a nazionale.