Prologo
Durante la prima metà del ‘900 vi sono stati tre eventi di spicco. Le due guerre mondiali e la ‘Grande depressione’ economica. Quest’ultimo evento, in particolare, merita sotto vari aspetti la qualifica di cesura: le sue conseguenze si sono riverberate negli aspetti politici, economici e sociali successivi.
La ‘Grande depressione’ comportò un decennio di sofferenze ma da tale sventura derivò altresì la consapevolezza che il mercato non è in grado di autoregolarsi. (O che – perlomeno – non lo è in ogni circostanza e non è dotato delle forze che la soluzione di una grave crisi richiede). Si trattò di un brusco risveglio rispetto al generale clima di euforia e di fiducia nel futuro che aveva contraddistinto gli anni ’20 del novecento.
Erano emerse le contraddizioni del capitalismo rampante e sregolato, seducente in superficie ma insidioso nella sua essenza. Si può così parlare di una crisi feconda, parto di un clima culturale inevitabilmente destinato a un rinnovo. Salì alla ribalta il tema delle fluttuazioni economiche e, in questo ambito, il ruolo del governo quale attore di politiche rivolte alla stabilizzazione macroeconomica. (I cicli economici avversi non erano una novità assoluta, ma non vi era consapevolezza circa una appropriata ‘politica’ da opporvi).
La ‘Grande depressione’ ha certamente ridefinito i contorni che il liberalismo e il conservatorismo hanno assunto nei decenni a seguire. Ha dato vita a una disputa che, nonostante il ritorno dell’ortodossia liberista negli anni ’80 del secolo passato, è lungi da potersi considerare chiusa. Le barriere ideologiche che erano vigenti negli anni ’30 sono state messe in discussione.
Una breve cronaca
Al termine della Prima Guerra mondiale gli Stati Uniti d’America si erano affermati quale nuovo punto di riferimento dell’ordine internazionale. L’economia americana era ormai la più importante al mondo. Le sue vicende interne si sarebbero ineluttabilmente ripercosse al di fuori dei suoi confini. Un crollo della produzione industriale americana avrebbe comportato un drastico calo delle importazioni di materie prime e una eventuale interruzione dei flussi internazionali di capitale.
Un richiamo in patria di fondi concessi a titolo di prestito avrebbe prodotto gravi conseguenze per i Paesi debitori. Di non poco conto si sarebbe in proposito rivelato il ruolo del ‘Sistema aureo’, il sistema monetario internazionale allora vigente. La ‘Grande depressione’ è convenzionalmente fatta risalire alla caduta dell’indice della borsa di New York – Wall Street –, avvenuta nell’ottobre del 1929. In realtà, l’economia americana era già da qualche tempo in caduta libera. Produzione industriale e settore delle costruzioni registravano prestazioni in calo.
Poi, sopraggiunse il collasso nel mercato delle azioni in Borsa. (Il Dow Jones Industrial Average subì un ridimensionamento del 40% soltanto nell’arco del mese di ottobre del ’29). La precipitosa corsa agli sportelli che aveva fatto da corollario al tracollo borsistico aveva in breve tempo condotto al fallimento di vari istituti di credito. Tra l’ultimo scorcio del 1930 e il 1933 il sistema finanziario era infine precipitato nel baratro. I fallimenti bancari negli USA non erano sconosciuti, ma prima di allora erano stati circoscritti a istituti di interesse locale, operanti perlopiù in aree rurali. (Dato il quadro regolatorio vigente, che non vedeva favorevolmente i ‘trusts’ finanziari, gli Stati Uniti erano disseminati di numerose piccole banche).
Durante gli anni ’20, a causa della deflazione che aveva toccato il comparto dei prodotti agricoli, si erano susseguiti vari episodi di difficoltà delle banche rurali. Questa volta però, per via del volume dei depositi detenuti dalle banche coinvolte e per la sua durata, il fenomeno fu di una profondità inusitata. Nel novembre 1930 fallirono 256 istituti, con 180 milioni di depositi. Il mese seguente seguirono 352 fallimenti, coinvolgendo depositi per 370 milioni. Poi, collassò la Bank of United States, portandosi via oltre 200 milioni di depositi che interessavano 440.000 clienti. Alla fine del 1933 solo la metà delle banche commerciali era sopravvissuta, peraltro con gravi perdite subite. (Oltre alle banche, rimasero coinvolti numerosi intermediari operanti nel mercato finanziario).
In tale contingenza, l’intermediazione del credito era, ovviamente, in ampia misura compromessa. Fra il 1924 e il 1929 i prestiti americani diretti all’estero erano stati pari a 6,43 miliardi di $, conseguenza della fine delle restrizioni che, dal 1913, aveva consentito la ramificazione all’estero del sistema finanziario statunitense. Un’espansione che, quando l’euforia speculativa finì per rovesciarsi rovinosamente sul Paese, si sarebbe rivelata fatale in termini di contagio della crisi (specialmente all’Europa).
Inoltre, si era diffusa la presenza dei fondi di investimento, i quali finirono per essere uno dei canali per l’acquisto di azioni a Wall Street, i cui corsi si inflazionavano sempre più. Per via di un eccezionale senso di fiducia e di ottimismo, nonché grazie a una sempre maggiore facilità di indebitamento, era divenuto pratica comune eseguire investimenti finanziari di gran lunga eccedenti la capacità reddituale effettiva. In particolare, soltanto fra il 1927 e il 1929 il valore dei prestiti intermediato dagli operatori di Borsa era duplicato. (Nel settembre 1929 aveva toccato la cifra di 8,5 miliardi, l’8,1% del Pil).
Bastava un calo del valore dei titoli che essi non avrebbero più costituito la garanzia sufficiente a coprire i prestiti con i quali erano stati comprati. Quando non si è più in grado di soddisfare le richieste di nuovi versamenti al fine di aumentare le ‘garanzie collaterali’ si è costretti alla liquidazione. Visto il numero impressionante di dissesti bancari occorso nel 1930, gli istituti ancora in piedi cominciarono a liquidare le loro attività, mentre i depositanti si affrettavano a ritirare i loro contanti. Il volume dei depositi declinò rapidamente e, nel gennaio del 1932, si contarono altre 1860 banche condotte alla chiusura. (Coinvolgendo ancora 1,45 miliardi di $ in depositi).
La corsa agli sportelli e i fallimenti delle banche contribuirono a menomare l’efficienza del settore finanziario nella sua funzione di intermediazione creditizia, con evidenti conseguenze nell’aggravamento della crisi. Fra il 1929 e il 1933 il Pil reale si contrasse di oltre il 30%. Il livello del Pil sarebbe tornato pari a quello del ’29 soltanto nel 1941. Nei primi anni trenta il calo dei prezzi fu del 10% all’anno. Fra il 1929 e il 1932 i prezzi all’ingrosso diminuirono di un terzo.
Le imprese – soprattutto quelle di ridotte dimensioni – fallivano a grappoli e si susseguivano i casi di insolvenza, sia aziendali che individuali. Moltissimi furono gli episodi di case pignorate e, all’inizio del 1933, il 45% dei proprietari di aziende agricole non era riuscito a rimborsare le rate dei mutui contratti. Analoga tensione valeva per numerosi governi locali che, con le casse all’asciutto per via dei sostegni erogati alla popolazione, non poterono onorare le obbligazioni emesse. (Il fenomeno interessò 37 città sopra i 30.000 abitanti e tre stati).
Nel 1933, il reddito di una famiglia media americana si era praticamente dimezzato rispetto al livello pre-crisi. Il tasso di disoccupazione si era arrampicato fino al 25%, dal 3,2% del 1929, arrivando a toccare i 15 milioni di senza lavoro. Chi aveva la fortuna di non perdere il lavoro, spesso era costretto all’impiego part-time. In sintesi, nel ‘primo dopoguerra’ gli Usa si erano affacciati al mondo quale nuova potenza egemonica. Ne era seguito il periodo cosiddetto dei ‘Ruggenti anni ’20’, durante i quali gli ‘states’ si lasciarono alle spalle l’economia controllata che il conflitto aveva indotto e il credo affaristico aveva riguadagnato la scena.
Tuttavia, le basi dell’espansione si erano rivelate piuttosto gracili. Dietro le prospettive di una crescita indefinita vi erano concentrazioni di capitale – anche nei servizi di pubblica utilità -, eccesso di credito, una bolla finanziaria mai vista prima, sovrapproduzione e l’illusione di un facile arricchimento alla portata di tutti. Infine, come già accennato, la ‘Grande depressione’ non fu un fenomeno isolato all’ambito degli Usa. La risposta delle autorità Il Presidente Herbert Hoover, allora in carica, volle mostrarsi subito molto attivo nel contrasto alla calamità che si era abbattuta sulla società americana.
Forse sottovalutando la serietà e la natura della crisi, fece in modo di ottenere una serie di ‘buoni propositi’ da parte delle associazioni imprenditoriali e sindacali. In tale ambito, chiese alle prime di continuare a investire e di non procedere ad un brusco calo delle retribuzioni – almeno fintanto che il costo della vita non fosse decrementato -, ed alle seconde di non lasciarsi andare a rivendicazioni. Inoltre, fece dei tentativi diretti affinché non venisse a mancare il credito alle imprese. Poi, organizzò un programma di lavori pubblici, inoltrando al Congresso richiesta di uno stanziamento pari a 423 milioni di $. Ma questo non bastò.
La tendenza alla deflazione spazzava via aziende le quali non potevano conservare livelli di produzione che non trovavano sbocco nel mercato. (Anche il mercato europeo, intanto, si andava sempre più assottigliando). La disoccupazione aumentava, e anche la speranza di frenare l’emorragia dei fallimenti bancari – nonostante con il varo della Reconstruction Finance Corporation fossero stati messi a disposizione 1,5 miliardi di $ – alla fine evaporò. Il protratto calo dei prezzi comportò l’aumento del gravame dei debiti, il quale passò – fra il 1929 e il 1933 – dal 9% del reddito nazionale fino al 19,8%. E i salari, alla fine, a dispetto dei buono propositi iniziali del presidente, furono trascinati nella spirale discendente.
Per cercare protezione dalla concorrenza estera, nel 1930 vide la luce la tariffa Hawley-Smoot, contribuendo alla caduta in picchiata delle importazioni. Hoover si mostrò tetragono nell’opporre il proprio rifiuto dinanzi alle richieste di assistenza a favore dei disoccupati e degli indigenti. Il Congresso approvò una legge che istituiva sussidi di disoccupazione a aumentava il fondo destinato ai lavori pubblici, ma il Presidente la bloccò. Non doveva essere il governo federale a farsi carico dell’assistenza e, per di più, bisognava cercare di mantenere il bilancio pubblico in pareggio.
Infine, Hoover fece disperdere con la forza un presidio di 11.000 veterani di guerra – ora disoccupati – che chiedevano un prestito a titolo di anticipo del premio di una polizza concessa loro a suo tempo. Nonostante i divieti, dimostrazioni di poveri e disoccupati si susseguivano. La presidenza di Hoover era avviata al capolinea. Gli sarebbe rimasta appiccicata addosso l’etichetta di presidente preoccupato solo degli interessi facenti capo agli uomini d’affari.
Intanto, a settembre del 1931 la Gran Bretagna era stata costretta a lasciare il ‘Sistema aureo’. (Il sistema in cui ciascuna moneta dei Paesi aderenti era legata all’oro con un rapporto fisso, per cui ogni banca centrale era tenuta a offrire metallo giallo in cambio di valuta al tasso di cambio predeterminato, risultando così rigidi i cambi fra le varie divise). Il timore che gli Stati Uniti l’avrebbero presto seguita spinse banche centrali e investitori internazionali a convertire in oro le attività denominate in dollari.
Di contro, la Banca centrale americana (il Sistema della riserva Federale), in imbarazzo davanti alle pressanti richieste di oro e con le banche nuovamente in preda al ritiro dei depositi, innalzò i tassi di interesse. (Lo aveva fatto anche nel 1928, in replica ad analoga mossa adottata dalla Banca centrale britannica). Il repentino rialzo dei tassi servì a difendere il dollaro e assicurò, la temporanea permanenza degli Usa nel ‘Sistema aureo’. (Nonostante le ingenti riserve di oro a disposizione).
Ma ciò avvenne proprio mentre le condizioni economiche del Paese – segnate da riduzione del prodotto e prezzi in calo – avrebbero consigliato un’azione espansiva. E’ da ricordare, in via generale, che nell’ambito del ‘Sistema aureo’, la decisione di una banca centrale diretta a un inasprimento della politica monetaria induce gli istituti centrali degli altri Paesi a imitarla. (Per esempio, una banca centrale che si trova con disponibilità limitate di riserve auree – o non intende cedere più di tanto quelle di cui dispone – non ha molta scelta che quella dell’incremento dei tassi). Ciò aiuta a spiegare la propagazione internazionale della crisi. (Il sistema dei cambi fissi con le riserve d’oro al suo centro, tendeva ad esser deflattivo e comportava una corsa concorrenziale all’accaparramento delle riserve, specie se il sistema non era adeguatamente ‘lubrificato’ da continue scoperte di giacimenti auriferi).
Nell’aprile del 1932 il Congresso riuscì a persuadere la Banca centrale ad operare l’acquisto di 1 miliardo di $ in titoli di stato. Tuttavia, l’operazione venne eseguita con riluttanza dalla Fed e osservata con sospetto da parte del settore finanziario, dietro convinzione che essa avrebbe portato all’inflazione. (Fatto che non si materializzò; anzi, per lunghi anni la bestia da combattere sarebbe rimasta la deflazione). Comunque, la mossa sfociò in un sensibile allentamento dei tassi. Purtroppo, in una situazione di deflazione neanche tassi vicini allo zero sono in grado di vivificare un’economia agonizzante. (Il costo reale dei prestiti rimane elevato).
Così, in luglio, i vertici della Fed ne approfittarono per bollare come insulsa l’idea del Congresso e ‘tornare indietro’. In verità, verso la fine del 1932 il contante detenuto dai privati era in calo e il volume dei depositi aveva ripreso ad aumentare. Molti enti creditizi disponevano di denaro in abbondanza. Ma non si trattava ancora della ripresa economica, che era molto lontana. La depressione mordeva più che mai. Il clima di prezzi bassi non incoraggiava certo l’intrapresa. Nonostante il lieve miglioramento di condizione del sistema finanziario, altri fallimenti bancari seguirono.
Fra l’altro, non era pensabile che le banche fino ad allora sopravvissute si cimentassero nella concessione di nuovi prestiti. Soltanto nel 1933 inoltrato si palesarono segnali di ripresa, che proseguì fino al 1936. Essa, fu comunque interrotta da una nuova recessione, occorsa nel 1937. Il ritorno al pieno impiego e il pieno recupero del livello di attività produttiva si ebbero soltanto durante la Seconda Guerra Mondiale. (Nel 1941).
(La seconda parte verrà pubblicata giovedì 18 febbraio)
Si ringrazia l’amico Paolo Ducoli per i consigli – tratti da una sua tesi – sull’argomento e l’amico Roberto Busiello per gli spunti emersi durante le discussioni sulla crisi del ’29.