Nell’immaginario collettivo (o, se preferite, nella cultura pop contemporanea) la figura degli imperatori malvagi è quasi sempre legata a una scena o a un singolo fotogramma: Nerone che suona la lira sullo sfondo di Roma in fiamme, Caligola che nomina senatore il suo cavallo, Tiberio che si sollazza in piscina con giovinetti nudi. Non vale solo per i “mostri” o presunti tali: di Vespasiano si ricorda il “non olet” riferito a una moneta incassata grazie alla tassa sui gabinetti pubblici, da allora chiamati “vespasiani”.
Pur facendo parte della schiera dei cattivissimi Domiziano Flavio ha lasciato ai posteri una più labile memoria di sé: c’è chi lo confonde con il caparbio Diocleziano, vissuto due secoli dopo, chi a stento rammenta che fu l’ultimo della sua gens. Non è riuscito a diventare un’icona di malvagità, sebbene il grande (ma “oscuro”) Tacito gli rivolga critiche asperrime: l’esito in fondo è singolare, perché il personaggio rivela un’evidente inclinazione a comportamenti bizzarri.
Svetonio e Dione Cassio attestano un morboso interesse per le mosche: al principio del regno Domiziano era solito rinchiudersi da solo nel suo studio per passarvi le ore a trafiggere i fastidiosi insetti con lo stilo. “Chi c’è con l’imperatore? Nessuno, nemmeno una mosca”: questa battuta circolava nell’ambiente di corte, e l’occupazione descritta è troppo strana e peculiare per pensare a un gratuito intento denigratorio. Mi spiego: le accuse di pedofilia rivolte all’ultimo Tiberio, pur indimostrate, si rifanno a un abusato stereotipo – quello del vecchio satiro libidinoso. Per demonizzare un personaggio si ricorre insomma alla descrizione di devianze disdicevoli, ma in qualche modo “ordinarie” anche se ingigantite ad arte: fra esse difficilmente annovererei il “moschicidio”, un unicum tra le pessime azioni ascritte agli imperatori maledetti.
Merita chiedersi se sul trono romano sedette dall’81 al 96 d.C. un maniaco affetto da demenza. Le fonti suggeriscono una risposta diversa, benché il nostro protagonista presenti tratti caratteriali psicopatologici. Chi era Domiziano? Anzitutto un figlio e un fratello minore. Il padre era il già citato Vespasiano, un laziale di origini abbastanza umili che grazie ad abilità militare e contadinesco buon senso aveva fatto carriera nell’esercito fino a diventare, per una concomitanza di circostanze favorevoli, imperatore di Roma. Intendiamoci: dopo la morte di Corbulone era lui il miglior generale sulla piazza, e la conduzione della guerra giudaica lo dimostra – trattandosi di un plebeo “di provincia” la sua ascesa ha tuttavia del miracoloso.
Domiziano nasce agli inizi degli anni ’50, sotto Claudio, quando il genitore è ancora un ufficiale semisconosciuto: l’infanzia è segnata da ristrettezze condivise con il fratello maggiore Tito, più anziano di un decennio e prediletto da Vespasiano. Nella sua rapida scalata al potere quest’ultimo si premura di avere accanto il primo figlio, che anche fisicamente gli somiglia: Tito si rivelerà un capo militare altrettanto capace e sarà ben presto associato all’impero.
Domiziano rimane nell’ombra e, sentendosi negletto e sottostimato, inizia a concepire verso i familiari un sordo rancore. Divenuto unico sovrano il fratello Tito gli fa vaghe promesse di successione, ma non gli conferisce l’imperium proconsulare né la tribunicia potestas: la morte prematura del secondo dei Flavii spiana la strada per il trono al figlio cadetto, ma non estingue il suo risentimento – le malelingue gli attribuiranno (senza prove) un ruolo nella fine del fratello, di cui comunque non mostra di dolersi troppo.
Domiziano ha circa trent’anni: le fonti ce lo descrivono come un bell’uomo alto e slanciato, dai capelli castani. Il viso, piuttosto largo, ricorda quello di Tito (che però era tarchiato e di bassa statura), ma a contraddistinguere il nuovo princeps sono lo sguardo sfuggente e la tendenza ad arrossire, che in molti imputano all’inizio a un’eccessiva pudicizia. Pur non appartenendo all’élite nobiliare dimostra fin da giovane un’inclinazione per lo studio e la letteratura: i suoi versi poetici saranno esaltati da Quintiliano – una volta salito al trono, tuttavia, egli demanderà ai funzionari la stesura degli atti, limitandosi a sottoscriverli. Altro che modestia! Domiziano Flavio si arroga il titolo di Dominus et Deus: Signore e Dio – ma sembra quasi una dispettosa ripicca nei confronti di coloro che non gli avevano dato importanza. A rammentargli la sua umanità è il repentino declino fisico, cui assiste sgomento: perde i capelli e, pur attenendosi a una dieta frugale, comincia a ingrassare.
Il supremo potere non lo ripaga delle delusioni che continua a patire: gli esseri umani sono aridi e abbietti, tentare di raddrizzarli è impresa vana. Il passare degli anni accentua la sua innata misantropia, che la timidezza rende ancor più evidente: si isola nel palazzo imperiale, cena da solo, rifugge i contatti con le masse che avevano idolatrato Gaio e Nerone. Non è un istrione, ma prova ad amministrare lo Stato con diligenza: il suo modello è Tiberio Cesare, cui si sente affine per carattere. Molte decisioni denotano assennatezza: visto il pessimo stato dell’agricoltura italiana, incapace di sfamare una popolazione crescente, ordina di limitare la coltivazione della vite e concentrarsi su quella dei cereali.
Sospende le frumentationes, ma ripristina l’usanza dei banchetti pubblici; nell’amministrazione riduce il potere e la sfacciataggine dei liberti, cercando anche di mettere un freno alla corruzione dei costumi. Conduce di persona guerre difensive senza particolare successo, ma sotto di lui – grazie all’Agricola immortalato da Tacito – viene completato l’assoggettamento della Britannia. Non si compiace troppo di un paio di trionfi rubacchiati, ma col trascorrere del tempo la sua diffidenza assume contorni patologici: scorge ovunque nemici intenti a ordire macchinazioni e interviene con implacabile durezza, facendosi letteralmente il vuoto intorno. Stringe una relazione con la nipote, che costringe ad abortire: domineddio non vuole figli, lei muore. Questa perdita lo tocca e intristisce, ma lui non ha mai creduto nell’amore: lo chiama “ginnastica da letto”. Dietro l’ostentato cinismo si coglie un’ombra di disperazione: l’uomo più potente del mondo sa di non potersi fidare di nessuno, neppure di se stesso. Vanitas vanitatum et omnia vanitas.
A quarantacinque anni Domiziano è ormai un vecchio: cupo, accigliato, disilluso e incattivito. Ammazza gli oppositori come se fossero mosche: non valgono di più ai suoi occhi – sospetto anzi li disprezzi maggiormente. A toglierlo di mezzo è un complotto di famiglia orchestrato dalla moglie Domizia Longina: per non destare sospetti Stefano, il sicario designato, nasconde il pugnale nella fasciatura del braccio. Ferito a tradimento all’inguine il principe si getta sull’attentatore con furia selvaggia: gli caverebbe gli occhi se non accorressero gli altri congiurati.
L’impenetrabilità di Domiziano Flavio, la sua livorosa solitudine, il nichilismo estremo suscitano in chi a distanza di secoli gli si accosta un senso di turbamento che sconfina nell’angoscia: forse per questo l’umanità ha preferito cancellarlo, riservandogli una seconda damnatio memoriae. Gli eccessi di Caligola e Nerone, in fondo, sconvolgono meno di una fugace visione dell’abisso.